Old concerts: 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

 
Soul Doctor + Black Rose + Burning Black
9 dicembre 2006 - Bologna – Der Kindergarten

La serata di sabato 9 dicembre si profilava in tono dimesso, già a seguito dell’annunciato e prevedibile epilogo della collaborazione tra Bolognarockcity ed il locale Kindergarten. I Soul Doctor sono gli ultimi “animali da palcoscenico” che ci è concesso di ammirare nella gabbia del “Kinder…Zoo”. I presagi della vigilia trovano purtroppo conferma nella quasi totale disertazione del locale, che richiamerà complessivamente non più di 50 persone, addetti inclusi. L’organizzatore mi confidava, prima dell’inizio della serata, un forte senso di delusione per la mancata risposta alle sue iniziative da parte del pubblico bolognese, che assommate alla carenza in città di strutture alternative idonee, verosimilmente porteranno BRC a spostare il tiro verso altre sedi più recettive nei confronti di questi eventi. Certo che è abbastanza paradossale, per un progetto dichiaratamente nato proprio con l’intento di riportare il rock che conta a Bologna, doversi ritrovare ad operare altrove, ma sicuramente finora la città ed alcuni partners (o presunti tali…) hanno dimostrato di non saper apprezzare gli sforzi di quello che al momento è il promoter di concerti più attivo in Italia nel settore dell’hard rock melodico, e dunque di non meritare il fortunato privilegio di vedersi servita letteralmente a casa la parte alta del “bill” del recente Firefest inglese…

La serata bolognese viene aperta dai trevigiani Burning Black, che propongono un heavy metal classico in bilico tra Iron Maiden e Judas Priest, e comunque fortemente ispirato ai gruppi storici della scena metal degli anni ’80. I ragazzi ci danno dentro con molta determinazione, e tecnicamente appaiono ben dotati. Se le composizioni non brillano per originalità, la band ha comunque il “tiro” giusto per coinvolgere lo sparuto pubblico. Impressiona favorevolmente il vocalist, che nelle tonalità più acute ricorda da vicino Rob Halford, ma tutta la band suona bene, ed anche in considerazione della giovane età media dei componenti, ritengo che i margini di crescita siano molto ampi. La maturazione artistica li dovrebbe portare ad esprimere una più spiccata personalità in fase compositiva. Avanti così!!!

I trevigiani cedono la scena ai locali Black Rose, che nell’occasione presentano il proprio album “The return of the Black Rose”, proprio in coincidenza con la data di uscita ufficiale del prodotto. I musicisti sul palco si dimostrano più “navigati” rispetto alla band precedente, e propongono un sound decisamente più ricercato e d’atmosfera, che però punta meno sull’impatto sonoro. Le coordinate musicali sono molto più settantiane, e si va dai Deep Purple ai primi Whitesnake. Nei brani più tirati si potrebbe forse azzardare un accostamento ai Thin Lizzy. Il cd formerà oggetto di una più approfondita recensione nell’apposita rubrica, mentre la prestazione live è stata probabilmente condizionata da un pizzico di delusione, nei pur bravi musicisti, per l’esordio discografico “in sordina”, considerata la assenza di pubblico, e soprattutto dall’infelice contesto in cui la band si è dovuta esibire, incastrata tra gruppi dal sound molto più aggressivo. Da rivedere…

Finalmente giunge il momento dei Soul Doctor. E’ molto tardi e forse per questo motivo, oltre che per la già evidenziata scarsa consistenza dell’audience, la scaletta dei brani viene, a più riprese, drasticamente decurtata di almeno quattro canzoni, impietosamente defalcate sui promemoria appoggiati a terra sul palco. Ed è un vero peccato, perché la formazione capitanata da Tommy Heart propone un hard rock di gran presa, grazie all’indiscussa abilità dello stesso vocalist ed alla perizia del sorprendente chitarrista Chris Lyne. Per queste date live, oltretutto, il muro sonoro è alimentato da un secondo chitarrista, mentre la sezione ritmica è affidata al nuovo innesto alla batteria Michael Wolpers ed al simpatico bassista/cowboy Jogy Rautenberg (ex Skew Siskin), con cui avevo avuto modo di intrattenermi in conversazione prima del concerto. Questa esibizione mi aveva dato occasione nei giorni precedenti di andare rispolverare i lavori della band tedesca, potendone apprezzare la validità della proposta musicale, in bilico tra Gotthard, AC/DC ed, ovviamente, Fair Warning. La scaletta si riduce ad una dozzina di pezzi ed è alquanto focalizzata sull’ultimo album “For a fistful of dollars”. Un pizzico di delusione per la assenza di “Livin’ the life”, facente parte anche della colonna sonora del cult movie Rockstar, anche se il pezzo non figurava nemmeno tra quelli depennati dalla tracklist originaria. Concerto tutto sommato molto piacevole, per una band che forse in questi anni non ha ottenuto un adeguato supporto ad opera della Frontiers, dalla quale peraltro i Soul Doctor si sono recentemente staccati per firmare un contratto con la bavarese Metal Heaven.

Ma in definitiva il contesto generale, per musicisti, organizzatori ed anche per i pochi aficionados locali, è tutt’altro che esaltante… Certo è che, visto l’impegno profuso, Bologna Rock City meritava di chiudere l’attività 2006 con un riscontro di pubblico e con prospettive per il futuro ben diverse…
Alessandro Lilli

 
BONFIRE + RAIN + Guests
26 novembre 2006 - Bologna – Der Kindergarten

Non credo che fossi il solo a cullare da anni il sogno di vedere dal vivo i Bonfire. Bolognarockcity, nei cui confronti non spenderò mai abbastanza elogi per quanto sta riuscendo a concretizzare in questa città dopo anni di immobilismo pressochè totale (megafestivals a parte), è riuscita a regalare una esaltante serata ai circa 150 presenti del Kindergarten (invero decisamente pochini, in relazione alla levatura dell’evento).
Avvio letteralmente con il botto per i rockers tedeschi, che piazzano in sequenza due outtakes dall’ultimo studio album “Double X”, vale a dire “Day 911” e, soprattutto “But we still rock”, tanto per mettere a tacere tutti coloro (me incluso), che negli ultimi anni li avevano ritenuti un po’… “alla frutta”. L’unico ulteriore brano estratto dal nuovo album sarà, più avanti, “Blink of an eye”, mentre il resto dello show si basa su classici inclusi nei primi tre albums dei tedeschi e nel più recente “Fuel to the flames”. In scaletta si susseguono “Never mind”, “Under blue skies” ed “Hot to rock”, con Claus Lessmann molto comunicativo e prodigo di strette di mano (ad un certo punto scenderà letteralmente dal palco, salutando i presenti in giro per la sala…).

L’ambiente è caldissimo, ed il pubblico accoglie entusiasticamente i brani che si susseguono in scaletta. Per l’occasione i Bonfire presentano per la prima volta dal vivo “Tony’s roulette”, estratto dal fortunato “Point Blank”, quindi “Proud of my country”, preceduta da un preambolo contro il nazismo, durante il quale Claus trova anche modo di infilare un elogio all’Italia per il recente successo ai Mondiali di Germania. La suggestiva “Give it a try” e l’assolo di batteria consentono alla band di tirare un po’ il fiato, prima dell’ arrembaggio finale basato su “American Nights”, “Sweet obsession”, “What’s on your mind” e “Hard on me”. Stranamente manca all’ appello la più volte invocata “Champion”, di cui viene giusto offerta una breve reprise durante la conclusiva “Ready for reaction” (ma non è che in realtà i ragazzi hanno ancora sullo stomaco le due “pizze” di Dortmund???). Altro grande assente è il primo grosso hit della band “Starin’ eyes”, che sembra essere stato in qualche modo ripudiato dai Bonfire, come del resto aveva già dimostrato anche la mancata inclusione, qualche anno fa, nel doppio autocelebrativo “29 golden bullets”. Senza voler tornare sulla questione Kindergarten, è significativo segnalare come lo stesso Claus Lessmann, durante uno dei suoi monologhi, tenti di sdammatizzare la presenza del reticolato attorno al palco, liquidando l’argomento con la frase: “There’s no problem. We’re here to have some fun. It’ s only rock’ n roll”. Salvo però, in un secondo tempo, mostrare un dito insanguinato per la ferita riportata durante una delle acrobazie compiute per superare l’ostacolo della grata e raggiungere i fans più defilati …
Gli encores prevedono un tuffo nel passato con la classica ballad “You make me feel “ e “SDI”, sino a giungere alla conclusiva “ Bang down the door”.

Il concerto dovrebbe essere terminato, ma il pubblico in visibilio invoca la band che, generosamente, si concede per un ulteriore brano a richiesta (ma nemmeno tanto…), optando alla fine per “Sweet home Alabama”. Claus Lessmann addirittura mi affida in consegna la sigaretta post-concerto che aveva già pronta nelle mani (e che gli restituirò a fine brano, anche se il fumo fa male…). Al tirar delle somme, una esibizione davvero esaltante, con i Bonfire che hanno dato una bella lustrata allo scettro di miglior band teutonica, guadagnato ai bei tempi che furono. Un po’ come accaduto per i Gotthard, la morale è che non è necessario essere musicisti tecnicamente mostruosi (Hans Ziller, alquanto appesantito, svolge diligentemente il suo ruolo pur tenendosi piuttosto defilato, e facendosi supportare dal secondo chitarrista Chris Limburg) Il segreto sta nell’avere un repertorio di canzoni coinvolgenti al punto giusto, e nel riuscire a divertirsi nel suonarle, con professionalità, ma senza forzature o eccessi. It’s only rock’ n roll… Semplice!!! Serata memorabile, che personalmente ricorderò come il regalo di Natale da parte di BRC. Grazie di cuore, Emiliano, e tanti auguri anche a Bolognarockcity!!!
Alessandro Lilli

 
WHITE LION + MARKONEE
Sabato 18 novembre 2006 - Bologna – Der Kindergarten

Dopo una serata memorabile (ma in senso negativo…) al Kindergarten di Bologna in occasione della data dei bravi ma sottovalutati House of Shakira, che mi aveva indotto ad esternare preoccupati commenti, in merito al locale, all’incolpevole promoter di Bologna Rock City, quella di sabato sera era un po’ la prova del fuoco per verificare l’adeguatezza della venue agli eventi, di rilevanza nazionale, che l’ ammirevole Emiliano di BRC si sta sforzando di portare a Bologna…
Purtoppo ho dovuto constatare che un po’ tutti gli aspetti negativi oggetto delle mie precedenti perplessità hanno trovato una nuova conferma. A partire da quell’orribile reticolato stile gabbia di giardino zoologico che avvolge quasi interamente il palco, penalizzando fortemente la visuale sia per il pubblico, sia per chi dovrebbe cercare di realizzare un report della serata. Come si vede dalle foto a corredo di questo servizio, la collocazione di chi scrive non era certo ideale, ed ho visto fotografi molto più professionali di me finire per darci su, sconfortati… Confermata poi l’assurda “tassa” imposta dai gestori del locale, costituita dal tesseramento obbligatorio Arci (12 euro oltre al prezzo del biglietto), che trovo francamente inaccettabile per chi ha raggiunto Bologna per quest’unica circostanza, e magari non avrà più occasione di rimettere piede al Kindergarten né in altri locali Arci…

Temevo potesse succedere il finimondo, invece per fortuna il pubblico ha dato ancora una volta prova di civiltà, alla faccia dei preconcetti denigratori sui rocchettari… Inevitabile effetto di questa “schedatura al botteghino” è stato il dilungarsi delle operazioni presso la biglietteria, che unitamente ad alcuni “capricci” da star di Mike Tramp, ha provocato come conseguenza un eccessivo ritardo dell’orario di inizio dello spettacolo.
Inizio quindi verso le 22:30 ad opera degli ormai onnipresenti Markonee, innanzi ad un pubblico davvero folto (sicuramente parecchie centinaia di persone). Ennesima conferma da parte dei bolognesi di essere una delle realtà emergenti del panorama hard rock nazionale, con uno show trascinante e molto dinamico, accolto dall’ audience con partecipazione e calore. La scaletta proposta si basa su una buona metà dei brani presenti sull’ album “The spirit of Radio”, che nella dimensione live acquistano un “tiro” notevole, con l’aggiunta del tuttora inedito anthem “Markonee”, di cui si attende con trepidazione l’ uscita come singolo.
Come nelle precedenti occasioni in cui ho avuto modo di vederlo onstage, il quintetto bolognese abbandona il palco collezionando un figurone pressochè trionfale.

Sono abbondantemente passate le 23:00 quando la “mane attraction” (per parafrasare uno dei loro albums) White Lion si presenta onstage. Mike Tramp sfoggia un fisico invidiabile sotto una t-shitr attillata ed un notevole tatuaggio colorato lungo tutto il braccio sinistro. La tenuta scenica del frontman danese è buona, ed il pubblico non si risparmia nell’osannarlo. Sotto il palco si accalcano fans dotati di sciarpe, vinili ed addirittura qualche striscione. Ad un certo punto c’è persino modo di inneggiare a Mike con un coro da stadio, da lui stesso orchestrato. Il concerto, fatti salvi gli encores cui lo scrivente non ha assistito, si è protratto per circa 90 minuti (quindi presumibilmente la durata complessiva avrà sfiorato le due ore) ed il pubblico ha mostrato di gradire molto l’ esibizione dei White Lion. Io personalmente vado controcorrente, e non nascondo di essere rimasto piuttosto deluso dalla performance offerta non tanto da Mike, quanto da alcuni elementi della band di supporto. In particolare dal chitarrista Jamie Law, il cui paragone col grandissimo Vito Bratta, tecnicamente lontano anni luce, è decisamente imbarazzante. Ed a proposito di luce, c’è da segnalare la scadente resa dell’ impianto in dotazione al Kindergarten, con il tecnico che scuoteva spesso il capo sconfortato, tanto che ad un certo punto sono stato testimone dell’intervento alla consolle delle luci (durante un solo di chitarra) del bravissimo batterista Troy Patrick Farrell, molto contrariato dalla pochezza degli spots in funzione.

Riguardo poi alla setlist di brani proposti, mi sarei aspettato una sorta di greatest hits live, che puntasse decisamente sui brani più celebri e sul disco di maggior successo della rediviva band, “Pride”. Invece i White Lion hanno proposto una scaletta decisamente heavy, attingendo dalla propria produzione meno nota e risultando, a tratti, noiosi (almeno per chi scrive) nell’insistere su un genere che non li rappresenta appieno, salvo piazzare qua e là qualche pietra miliare su cui si fondò la propria celebrità di fine anni ‘80.
Nel complesso uno show con più ombre (è proprio il caso di dirlo…) che luci, ma sostanzialmente non per demerito dei White Lion. E ciò desta preoccupazione in prospettiva della imminente data dei Bonfire. L’augurio è che i partners di Bologna Rock City si decidano a collaborare per davvero con il coraggioso Emiliano, dandogli un supporto logistico all’altezza della situazione, anziché irrigidirsi su posizioni autolesioniste che rischiano di affossare, anziché sostenere, gli ammirevoli sforzi e gli ambiziosi progetti di BRC.
Alessandro Lilli

 
WINGER + MARKONEE + FATAL SMILE
22 ottobre 2006 - Bologna, Nuovo Estragon


La organizzazione, il giorno antecedente, di una cerimonia familiare, con sostanzioso afflusso di parenti (di cui una buona mezza dozzina con doti naturali di “screamers” alla Miljenko Matijevic…) ed un picco di compresenze nel mio appartamento di ben 22 persone, aveva reso quantomai agognato il momento della gig dei Winger previsto per la sera di domenica 22 ottobre, anche per il suo intrinseco significato “liberatorio”… Liquidata definitivamente la pratica “ricevimento” appena qualche ora prima dello spettacolo, con un’ ultima corsa in aeroporto per accompagnare alcuni dei 12 invitati ospitati durante il weekend, mi sono recato presso il Nuovo Estragon letteralmente a pezzi…

Il tempo di fare un po’ di “training autogeno” in macchina, ascoltando il promo dell’ottimo cd degli Accomplice di Michael T. Ross, che recensirò più dettagliatamente nell’apposita rubrica, ed eccomi finalmente di fronte al palco per seguire la gig degli openers della serata, gli svedesi Fatal Smile. Sarà forse per via della stanchezza, ma la breve scaletta proposta scivola via senza destare in me alcuna particolare impressione… Hard rock abbastanza anonimo, band molto statica sul palco, un vocalist un tantino pacchiano, che si presenta onstage in un orribile gessato da cerimonia (che per fortuna vola via a metà del primo brano…) quasi a volermi prendere per i fondelli!!! Lo sparuto pubblico è abbastanza freddo e forse solo nel finale la band riesce ad accendere un po’ di entusiasmo. Classico opening act, che faccio fatica ad immaginare nelle vesti di potenziale headliner…

Secondi a calcare le scene sono i beniamini locali Markonee, che ultimamente stanno facendo parlare molto, e bene, di sé. I Fatal Smile vengono surclassati su tutti i fronti, il dinamismo e l’ energia onstage sono decisamente più marcati, al punto che al termine della serata la esibizione dei bolognesi risulterà di gran lunga la più tirata e spettacolare. In versione live, i brani dei Markonee acquistano un’ incisività che non sempre traspare sulle tracce incluse nell’ album “The spirit of Radio”. Ottimo dunque l’ impatto onstage, anche se continuo a nutrire qualche riserva sulla resa sonora del cantato, troppo spesso soffocato dalla restante strumentazione (cosa che non era invece accaduta ai Fatal Smile).

Alle 10,30 in punto si presentano finalmente sul palco gli attesissimi Winger, in formazione quasi originale. Manca all’appello il tastierista Paul Taylor, ma in compenso è rientrato nei ranghi un sublime Reb Beach, ora supportato dal secondo chitarrista ritmico John Roth. Winger si alterna tra basso e tastiere, ed anche se i segni dell’ età un po’ si notano, Kip mantiene una buona forma fisica e, soprattutto, una voce eccellente. Dietro i tamburi c’ è il solito, stratosferico, Rod Morgestein, un autentico mostro di bravura. L’impianto luci alquanto scarno ed una forse eccessiva staticità dei musicisti sul palco non contribuiscono ad alimentare il tasso di spettacolarità della performance, ma per fortuna c’ è la musica, fatta di tanti classici entrati a far parte della colonna sonora delle esistenze di molti dei presenti.

La scaletta alterna nuovi brani (invero forse un po’ troppo “sofisticati”…) al repertorio storico dei primi due dischi. Alla fine della esibizione mancherà all’appello solo l’ invocata “Hungry”. Indiscutibilmente gran musicisti per un concerto che non delude le aspettative dei numerosi fans accalcatisi nel frattempo sotto il palco. Durante gli encores, per lo scrivente si verificano due curiosi episodi degni di menzione: prima viene scambiato da Reb Beach per Mario della Frontiers, cui viene tributata un’ ovazione su invito dei musicisti… (dubito comunque che a Mario il malinteso abbia dato fastidio, giacchè a fine concerto ci abbiamo riso su in un brevissimo scambio di battute…).

Poi, nel corso della conclusiva Madeleine, lo scrivente viene invitato assieme ad altri ad abbandonare la fossa dei fotografi, presumo per una condotta forse divenuta troppo partecipe e poco professionale. Ma chi se ne frega, a quel punto la scheda di memoria della fotocamera era bella che esaurita, e non rimaneva altro da fare che godersi lo spettacolo da quella postazione privilegiata… Dunque poco male… Resta il ricordo di una bella serata, che conclude degnamente un weekend particolarmente intenso e carico di emozioni.
Alessandro Lilli

 
GOTTHARD + MARKONEE
Domenica 17 dicembre. Nuovo Estragon, Bologna

Dopo la “buca” rimediata al Venice Rock Festival nell’agosto dello scorso anno quando i Gotthard disertarono l’appuntamento (con gran lungimiranza…), attendevo con una certa impazienza una nuova opportunità per vedere finalmente sul palco la band svizzera. Grazie al mirabile impegno dell’ associazione Bologna Rock City (www.bolognarockcity.it), che sta allestendo interessanti iniziative ed una serie di appuntamenti live nell’ intento di ridare alla città felsinea la dimensione di importante crocevia lungo le rotte on tour delle bands più importanti della scena hard and heavy mondiale, l’ occasione si è concretizzata domenica 17 settembre presso il nuovo Estragon, struttura in grado di accogliere qualche migliaio di spettatori.

Invero, forse anche per colpa di un tempo infame, il pubblico presente era quantificabile in circa duecento unità, ma ciò altro non è che lo specchio dell’annosa ghettizzazione che l’hard rock ha subito e continua a subire da parte dei mass media che contano. Il vecchio falso teorema “rocchettari= brutti e cattivi” continua a farci considerare paese da terzo mondo anche agli occhi di una band che nella meno popolosa natia Svizzera riempie puntualmente piazze e palasport. Non a caso dal palco Steve Lee, nel suo perfetto italiano, ad un certo punto si consola commentando che gli astanti sono “pochi, ma buoni”. E quale band meglio dei Gotthard, grintosi ma sempre misurati, simpatici sul palco ed estemamente positivi nella loro attitudine musicale, potrebbe riuscire a schiodare radio e tv nazionali dai soliti preconcetti riguardo al rock duro?

L’istrionico Steve Lee, formidabile vocalist dall’enorme carisma ma sempre garbato e mai scomposto negli atteggiamenti, l’ allegro Leo Leoni, simpaticissimo nel simularsi assopito durante un assolo oppure nell’inscenare una gag con il secondo chitarrista Freddy Scherer per il possesso di una bottiglia di Jack Daniels, ed il resto della band, musicalmente impeccabile ma disarmente nella sua semplice concretezza, dovrebbero riuscire a convincere chiunque che il buon sano hard rock non è sottocultura o fenomeno da demonizzare, quando suonato con tale gusto musicale, brio, classe e senza (falsi) eccessi o smanie di protagonismo…

Cosa dire della gig dei Gotthard? Semplicemente perfetta!!! I Gotthard “SONO” l’Hard Rock, quello sano, vitale, divertente, trascinante. Non a caso all ‘estero gli svizzeri godono di un seguito di pubblico estremamente eterogeneo e non necessariamente “di settore”. Merito forse anche di un repertorio ricco di splendide ballate, magari un tantino “ruffiane” ma che comunque non scalfiscono l'anima decisamente rock della band. Davvero bravi tutti i musicisti nel proporre una scaletta che ricalca quasi integralmente quella del recente “Made in Switzerland” in quasi due ore di musica, contraddistinte da due riapparizioni della band sul palco per concedere gli agognati encores.

Piccola annotazione meritano anche gli openers, i locali Markonee, che hanno proposto un grintoso hard rock legato a doppia mandata alle sonorità degli anni ’80 in stile USA. Tanta energia, dinamismo e belle canzoni per musicisti saliti sul palco con l’ attitudine di chi ambisce a diventare una rockstar. Una determinazione senz’ altro salutare in una band all’ esordio discografico che, con un manipolo di canzoni molto accattivanti, merita senz’ altro una particolare attenzione da parte del pubblico.

Grande serata all’ insegna dell’hard rock di qualità, cui va dato atto agli organizzatori di Bologna Rock City. Ed a breve si replica con Winger, Bonfire ed House of Shakira, oltre a tante altre iniziative in chiave hard and heavy. Finalmente non toccherà più “emigrare” all’ estero per sentirsi… “normali” e godersi tranquillamente una serata di buona musica sorseggiando un’ innocua birra… 10 e lode!!!!
Alessandro Lilli

Trashlight Vision

 
BACKYARD BABIES + SUPAGROUP + TRASHLIGHT VISION
Venerdì 26 Maggio 2006 - Rainbow Club - Milano

Odissea rock… Non è possibile, i concerti a Milano iniziano troppo presto. Non che il sottoscritto sia una creatura della notte, ma per arrivare da una parte all’altra della città – da via Settala zona stazione Centrale a via Besenzanica Forze Armate – serve una buona mezz’ora. Il tempo di mangiare una pizza dello Spizzico, una Coca Cola, una porzione abbondante di patatine… Dodici o tredici fermate di metropolitana insomma. Fuori dal Rainbow, nel parcheggio del mitico Pam – più a meno – incontro Cristian degli Stinking Polecats, ci coccoliamo e parliamo dei bei tempi andati, si stava meglio quando si stava peggio – I don’t wanna be with a hippie girl.

Il nostro è un amore sincero, un amore vero, di quelli che durano negli anni… Dentro il locale fa esageratamente caldo, ovviamente perdo i Trashlight Vision che hanno già suonato all’ora dell’aperitivo e quando incontro Simone Parato sul palco ci sono i… boh, non mi ricordo il nome. Hard rock da New Orleans comunque e io, che sono maledetto, penso all’alluvione e a quelle tragedie lì. Pubblico variopinto: glamster di quarta categoria, tipi gotici, qualche punk rocker, una crew di biker, rasta da parco Sempione… Ce n’è per tutti i gusti, ma il vincitore morale è Dario dei Good Ol’ Boys con il suo curioso copricapo, un cappello di paglia tipo boss di Panama.

Dunque, poco prima che i Backyard Babies comincino a suonare, dalle casse esce “Sick of Drugs” dei Wildhearts. Immediatamente faccio notare alla mia fidanzata il fatto che Dregen e amici abbiano ricalcato pari pari il riff della canzone. E qui potrei iniziare a parlare dei Backyard Babies che sono un ottimo gruppo che sapientemente mischia tutte le proprie influenze: Social Distortion, Dogs D’Amour, Guns and Roses e vabbé. I Backyard Babies non sono certo una band originale, ma se volete un gruppo con mille idee interessanti cambiate genere musicale, buttatevi sul jazz o sull’elettronica e lasciate il rock a noi ignoranti. Prima canzone in scaletta, almeno credo, “Ghetto you”. Sembra che la band sia in sala prove, sono smorti e il suono è moscio.

“Look at you”, “U.f.o romeo”, “Made me madman” da “Total 13” – periodo zozzo glam. “Brand new hate”, “Star war”, “Heaven 2.9” da “Makin enemies is good”. Ecco, presente quando poco fa vi dicevo di “Sick of drugs” dei Wildhearts? “Heaven 2.9” appunto. Nicke dice qualcosa sull’Italia, sullo stare sempre in tour, la nostalgia. Nostalgia, nostalgia canaglia, cantavano Al Bano e Romina Power. Ora approfitterò del concerto di questi simpatici svedesi per recensire anche il loro nuovo album, “People like…”. Titolo geniale, copertina orrenda. Il booklet fa cagare (o cacare, per quelli di Roma), il codice a barre al centro del libretto non si spiega, le foto fanno schifo e… Dregen ha lo stesso golfino che aveva a Milano qualche anno addietro, a torso nudo.

“Cockblocker blues” è valida, il Metius degli Stp dice che è bruttissima, che se l’avesse proposta a quelli che suonano con lui, lo avrebbero mandato a cagare eccetera, eccetera. Secondo me è un pezzo senza senso, ma mi piace. Un bel riff, uno stacco alla Ac/Dc e tante belle cose. Nicke vuole essere come Mike Ness, Dregen come Andy McCoy. “Dysfunctional professional” ha un bellissimo ritornello, può piacere anche agli amanti dell’oi! Più becero, ma la strofa… Bé, la strofa è da Social Distortion. Idem “Blitzkrieg loveshock” che gasa non poco il pubblico del Rainbow che chissà se conosce i Social Distortion. Ma sì, tutti conoscono i Social Distortion. Nicke potrebbe togliersi il giubbino prima di iniziare a suonare, ma aspetta un tot di tempo. Poi rimane con una camicia d’amianto, nera. Col caldo che fa avrà le formiche sotto le ascelle. Sempre meglio le formiche che le anguille sul petto di Dregen, chiodo a contatto con la pelle nuda, sai che freschezza e sai che comodità.

Il cappello con la piuma… Mica sei zingaro tu. Andy McCoy è sì gitano, tu no. Peder è un orso barra scimmione. Non ho con me le noccioline, ma mi sento un po’ come allo zoo comunale e lo spio di nascosto. Grido aiuto aiuto è scappato il leone quando con la chitarra acustica attaccano “Roads”. Dio mio, la chitarra acustica no. Lasciamola a Mike Ness per i suoi dischi country, oppure a quelli che suonano “Knockin on heaven’s door”. Di questo passo al prossimo tour Nicke si presenta con la chitarra doppia, tipo Jimmy Page. “Roads” è bellissima e ricorda un po’ un’altra canzone dei Backyard Babies, una che c’è su “Diesel and power”. Capitolo Johan, bassista. Per me è un po’ sfigato, il classico tipo che a scuola veniva preso per il culo, lasciato in disparte, considerato meno di zero. Immaginate la scena: foto di gruppo in gita, tutti in posa, arriva lui e si ficca dietro, tanto per esserci. Poi giù scoppoloni, mai fatta la lampada a un compagno di classe? Ora gira il mondo come Sampei, i suoi ex-amici-nemici saranno impiegati alle poste svedesi e viva viva il rock and roll. Johan posa, canta, Backyard Babies al 100%, ma io so tutto del suo passato e sono contento per lui.

“Mess age” la canta Dregen. Strofa in stile Warrior Soul, ritornello accattivante, ottima canzone ma chissà perché l’hanno scelta come singolo. Nel finale, anzi – nei bis, i ragazzi si ricordano di “Stockholm Syndrome” e sparano “Minus celsius… “People like, people like, people like us”. Il merchandise è orrendo, t-shirt scandalose, cappellini orrendi, spille schifose. Compro una toppa che non so ancora dove mettere e un sacchetto di plastica, questo sì davvero figo. Perché le band, più passano gli anni, più diventano famose e più producono magliette oscene? Teschi, nero, sobrietà: questo voglio, non chiedo tanto. Quindici euro per il cd dei Trashlight Vision, le tipe al banchetto bestemmiano, potrei farmi autografare il disco, ma l’unico autografo che mi sono fatto fare in tutta la mia vita è quello di Steven Adler – re dei perdenti.

L’autografo è da sfigati, poi un cd autografato dai Trashlight Vision mi sembra davvero eccessivo. Fossero i Take That almeno. Lester (Landslide Ladies) sostiene ci sia una festa nei pressi del chiosco, del furgoncino che vende birre e wuerstel… C’è effettivamente un po’ di gente, arriva anche l’orso dei Backyard Babies, Peder, saluta, si fa due foto, regala sorrisi distesi ai suoi elettori e ai bambini bon bon. Anche per stasera è tutto.
I Black Halos sono tutta un’altra cosa però.
Miguel Basetta

---- by Slam! Production® 2001/2007 ----