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EUROPE
23 Agosto 04 TUFERTSCHWIL OPEN AIR Lutisburg (Svizzera)

Avevo 18 anni, quando nel 1986, scoppiò il fenomeno Europe, con il tormentone “The final countdown”, ora esattamente 18 anni dopo, in seguito a defezioni cambi di line up, relativa ascesa e discesa con inevitabile scioglimento ecco che i 5 svedesoni ritornano con un tour di reuninon e relativo nuovo album sulla scia del trend del nuovo millennio a cui nessuna vecchia band sa resistere.
Dopo avere scorazzato per mezza Europa partecipando a diversi festival, li ritroviamo all’open air di Tufertschwil in svizzera (a un centinaio di km da Zurigo) come headliner della serata finale della manifestazione. Il programma prevedeva nei 3 giorni dal 20 al 22 agosto tra gli altri i Toto, i mitici Uriah Heep, gli Slade, i Backyard Babies insieme a un miscuglio non meglio identificato di band tedesche e svizzere con connotazioni musicali delle più disparate.
Dopo 5 ore di viaggio arriviamo ai parcheggi del festival, qui, grazie ad una proverbiale organizzazione svizzera veniamo prelevati da uno shuttle che ci scorta fino davanti all’entrata dell’enorme arena. Il tempo di ascoltare la fine del concerto di un assurdo gruppo svizzero i Plusch, ed ecco che alle 18.45, con solo 15 minuti di ritardo entrano i nostri eroi.

Non è più l’epoca di capelli biondi e cotonati, il gruppo che si presenta con la formazione originale, forti di un John Norum in grande forma, sfoggia dei semplici camicioni neri e jeans, e pettinature sobrie da esperti rockers quarantacinquenni. Si parte con “seven doors hotel” e “wings of tomorrow” dai loro primi lavori, e si capisce subito che chi la fa da padrone è solo il sano e caro rock’n roll. Mr. Tempest ha ancora una voce da fare invidia a molte nuove leve, e la padronanza di palco la dice lunga su come si fa del rock con le palle. Da “superstitious” a “sign of the time” passando da “ready or not” a una simpatica versione acustica di “carrie” cantata insieme al pubblico lo show prosegue alla grande. C’è spazio per un ottimo assolo di John Norum per poi riprendere con la ritmata “let the good times rock”. Si prosegue con un singolare assolo del batterista Ian Haugland accompagnato dai loop di “you really got me” e “ace of spades”. Poi è il momento dei primi due bis, “cherokee” e la famosissima “rock the night” fanno ballare tutti quanti. Altri saluti e nuovi bis. Il primo, “Stars from the dark”, è un inedito che uscirà sul nuovo album con sonorità decisamente anni 2000, tanto per stare al passo con i tempi, poi è ora del gran finale: “The final countdown” si materializza alle 20.30 dopo quasi 2 ore di concerto, ed è casino! Insomma un ottimo concerto.

Devo fare un plauso all’organizzazione del festival che oltre a ospitare bancarelle di ogni genere, svariati stand gastronomici, tra cui un inquietante “risotto ai funghi”, metteva a disposizione una fila interminabile di bagni senza code fastidiose, birra a volontà, e addirittura un baracchino con le sigarette con accendino in omaggio! Senza poi contare il servizio di scorta con lo shuttle per i parcheggi distanti qualche kilometro. Impariamo. Ma ora ci aspettano altre 5 ore di viaggio per ritornare nella nostra beneamata patria. Un saluto alla bandiera italiana che campeggiava in prima fila sulle transenne, un saluto ai glamsters di Sassuolo che abbiamo incontrato durante lo show, e un grazie a mia moglie LeeZ che si è ricopiata mano a mano la scaletta del concerto. Passeranno ancora altri 18 anni per me (me lo auguro!!) chissà gli Europe dove saranno…
Efi

 

TWISTED SISTER + AntiProduct
Astoria Club, London - 01/08/2004

Gia’ all’uscita del metro’ di Tottenham Court Road sento il nervosismo salirmi sulla faccia, e infatti l’occhio comincia a tremarmi ripetutamente come nemmeno Giuliano Gemma riesce a fare nei suoi gloriosi film western…del resto, un concerto dei Twisted Sister all’Astoria per un italiano è un evento da raccontare ai nipotini... Mi procuro il biglietto da un malefico bagarino (il concerto era sold-out da settimane!!!) ed mi metto in coda..

Il concerto richiama a sé appassionati da tutta l’isola e oltre, ed infatti mi trovo a parlare del piu’ e del meno con due ragazzi di Oslo, proprio mentre dieci metri dietro di noi, nella piazza sul retro del locale, si sta svolgendo un raduno gay con la musica a palla e con molti aficionados della festa che ballano mezzi nudi e che apertamente si profondono in effusioni amorose… Assicuratomi di aver infilato il badile nel retro dei pantaloni, proseguo fino all’ingresso del glorioso teatro londinese e raggiungo la parte alta del pit, non prima di aver dissetato il mio fisico con un paio di birroni freddissimi, rilassandomi dopo una giornata di puro turismo e praticando il “pussy-watching”...

Dopo una ventina di minuti di pausa ed un breve soundcheck, è il turno degli Antiproduct, band che non conoscevo per niente, ma che davvero mi ha piacevolmente impressionato. Non sono la persona piu’ adatta per recensire il loro gig, in quanto non conosco ne’ i pezzi ne’ la loro storia e neppure seguo il genere da loro proposto, ma davvero è stato un piacere assistere al loro show: musicisti seriamente preparati con il folle Alex che corre, salta e si danna l’anima per far partecipare il pubblico, e il resto degli strumentisti che ce la mettono davvero tutta per ben figurare davanti all’esigente pubblico accorso per la sorella schizzata. I pezzi mi sono sembrati piuttosto simili tra loro, ma l’estrema grinta e passione con il quale vengono eseguiti li fa uscire a testa alta anche se il pubblico, da parte sua, non sembra gradire al cento per cento e inneggia ai TS a piu’ riprese. Comunque, buona prova per un gruppo che ha dimostrato professionalita’ e grinta.

Decido quindi di tornare a fare tappa al bar e di scolare un paio di altri birroni ghiacciati, dato che la temperatura all’interno del locale è altissima (ci sono circa 37°, e come se non bastasse è stato il piu’ caldo weekend londinese negli ultimi 400 anni...), anche se va detto che da buon italiano sono abituato a questo tipo di temperature estive, e non posso trattenere le risate quando vedo certi tizi inglesi che sudano come petroliere...
Al bancone del bar c’è aria di festa, le aspettative sono altissime e si sente dai discorsi della gente; personalmente so gia’ cosa mi aspetta (ho assistito all’esibizione della sorella schizzata al G.O.M. 2004) ma qui nessuno li ha piu’ visti on-stage da lungo tempo ed è quindi normale tutta questa impazienza.

Alle nove in punto le luci si spengono, dagli ampli parte “It’s a long way to the top” degli AC/DC e tutti si accalcano in avanti, l’urlo della folla sale fortissimo (ormai l’Astoria è pieno da scoppiare) e dagli speakers esce possente e graffiante la voce gloriosa “Goooooood evening London, please welcome from New York, the one, the only, TWISSSSSTED SISSSSSTER!!!”
Ed è la fine……

I Twisted Sister superano uno alla volta i muri di Marshall e Ampeg che nascondono il backstage, e quando il minaccioso Dee Snider guadagna il centro del palco l’urlo della folla sale cosi’ alto che davvero si fa fatica a sentire la musica dall’impianto…i nostri “giovanotti” sono in forma eccellente e davvero partono in quarta, snocciolando i brani del tempo che furono con un’attitudine ed una classe che davvero non ha eguali…..”What you don’t know sure can hurt you”, “The kids are back” e la pluridecorata “Stay Hungry” aprono il concerto con una furia rock’n’roll che non lascia scampo, Dee Snider salta e corre in continuazione come se fosse tarantolato, il voluminoso Mendoza percuote il suo basso come se fosse un nemico da punire, il tarchiatissimo A.J. Pero non perde un solo colpo e i due axemen Ojeda e French intrecciano un portentoso muro chitarristico.
“Qui siamo tornati indietro di vent’anni” sono le parole che mi balenano in mente… nemmeno il tempo di dirlo che l’istrionico leader biondo della band ricorda ai presenti la loro lunga assenza da Londra: 18 anni lontani da palchi prestigiosi come quello di stasera sembrano spazzati via con una naturalezza che solo dei veri maestri come questi possono avere.
Il concerto prosegue con tutti (ma davvero TUTTI) i superclassici della band, dalla storica “You can’t stop rock’n’roll” alla plumbea “Destroyer”, dall’incalzante “Shoot ‘em down” alla partecipatissima “Knife in the back” dove Snider pretende ed ottiene senza sforzo la partecipazione di tutto il pubblico (“Get your fuckin’ fist in the air!!!”), sfondando la classica porta aperta, consapevole del fatto che il pubblico d’oltremanica ha una fame tremenda di concerti come questo.
Ovviamente non mancano i superclassici dialoghi tra il folle singer e la gente (alcuni davvero chilometrici come la storia ci insegna…), cosi’ come non mancano le frequentissime fughe dietro gli ampli da parte dei vari componenti per dissetarsi dalla calura, che ormai ha raggiunto livelli sahariani.
Due ore di concerto sono tante, ed infatti la band se la prende comoda (e nessuno ha fretta di andare a casa!!), andando a pescare anche materiale da dischi che purtroppo sono stati criminalmente sottovalutati o addirittura ignorati dal pubblico dell’epoca; quando dagli ampli viene sparata a tutta la mitologica “Come out and play” la folla impazzisce, proprio quando sembrava che l’attenzione stesse calando, per non parlare della pesante “Burn in Hell”, che riaccendono la fiamma del pubblico e lo scutono di nuovo. Addirittura la band va’ a pescare pezzi come “The Price”, durante la quale a piu’ persone attorno a me scendono copiosi lacrimoni, ma non c’è tempo per la tristezza, qui c’e’ in ballo il rock vero, e difatti torniamo a spassarcela con “I am, I’m me” dove la band se la ride di gusto. Spetta alla pluridecorata “We’re not gonna take it” il compito di chiudere lo show, dove Snider dà ancora una volta la riprova (se mai ce ne fosse bisogno) che per essere dei grandi bisogna anche saper creare un certo legame col pubblico, cosa di cui puo’ vantarsi di essere uno dei principali esponenti dell’argomento.

La band lascia lo stage, ma chiaramente tutti sanno che ancora non è finita… ed infatti dopo un paio di minuti da dietro le quinte esce un accaldatissimo Jay Jay French (a cui il trucco non è colato nemmeno un po’) che si prende cinque minuti di proscenio, dove con un fiume di parole spiega che questa non è una reunion come le altre, precisa che qui non abbiamo a che fare con una band che si riunisce con uno, due o tre gruppi originali e altri sostituti raccattati alla meglio, ma si è riunita in formazione originale e, credetemi, si è sentito in abbondanza….quando il concerto sembra pero’ traballare sulla sottile linea che lo divide con un comizio elettorale, ecco che Fiumi-di-parole-French viene fermato, e di colpo parte il pezzo che puo’ tranquillamente stare nell’olimpo dei superclassici, insieme a roba tipo “Rock’n’Roll all nite” dei Kiss o “Highway to Hell” degli AC/DC...
“I wanna rock” è il pezzo che l’intero popolo accorso vuole sentire, attorno a me vedo gente che piange, vedo gente che si abbraccia, vedo fidanzati che si baciano e vedo soltanto gente che se la sta spassando alla grande (me compreso), tutti ormai sono in piedi e agitano il loro pugno per aria e la classica spiegazione di Snider su come rispondere al suo ritornello viene perfettamente eseguita da tutto il pubblico al primo colpo, tant’è che proprio il ricciolissimo singer si stupisce di come Londra ruggisca al suo comando e applaude visibilmente soddisfatto. Il pezzo prosegue per una decina di minuti, il pit è rovente e nessuno vuole che il pezzo finisca, ma ormai il tempo stringe ed è ora di chiudere con “SMF”, non senza aver accuratamente presentato uno per uno i membri della band, che raccolgono a piene mani le ovazioni che il pubblico giustamente tributa loro, uscendo dallo stage da assoluti trionfatori.

Dopo due ore si riaccendono le luci e intorno vedo solo visi soddisfatti e sorridenti, gente che se torna a casa col sorriso sul volto e la consapevolezza di aver aspettato tanto per una cosa di cui ne è valsa la pena…
Avevo gia’ goduto forte durante l’esibizione bolognese lo scorso giugno, cosa che m’ha spinto ancor di piu’ a saltare sull’aereo e raggiungere Londra, ma stasera mi sono trovato di fronte ad un vero ciclone… se al Gods 2004 avevano fatto terra bruciata attorno a loro, stavolta si sono ulteriormente (ed abbondantemente) superati ed hanno dato un chiaro segnale per le giovani band di mezzo mondo che al giorno d’oggi sono in cima alle classifiche e si sentono supercool su cosa significhi essere rocker nel senso canonico del termine...

Alzatevi tutti in piedi e levatevi il cappello davanti a questi ultracinquantenni, che hanno dato una palese dimostrazione di superiorita’ stasera… cosa volete che vi dica di piu’?????
VECCHIA SCUOLA… E’ COSI’ CHE SI FA’!!!!!!!!
Gene Joint

 

RUISROCK
10-11.07.04 - Testo Damndoll foto Alberto @ Telefunkenationaltrio

Le recensioni non le legge nessuno, e fra l´altro l´idea di competere con le illustri penne di Slam mi uccide tutta l´ispirazione. Peró se mando solo le foto non contestualizzo, quindi, visto che a volte mi capita di avere l´irritante (per gli altri) fortuna di trovarmi al posto giusto nel momento giusto, ecco qua. Per dire, fino all´anno scorso manco sapevo che esisteva il Ruisrock, ma siccome ora dal mio appartamento sento il soundcheck, toccherá andarci. Peró che palle le recensioni…
Facciamo che racconto cose a vanvera sulla mia vita finlandese.
Ruissalo é una ridente isoletta dotata di spiaggia che appartiene all´arcipelago di Turku, un posto favoloso fra alberi, vegetazione lussureggiante e pecore al pascolo.

Un lungo sentiero che attraversa campi coltivati a grano alternati a zone paludose, con acquitrini da cui ti aspetti di veder spuntare un vietcong con il pugnale fra i denti, porta fino agli ingressi, dove una selva di biciclette e bambini intenti a raccogliere i vuoti degli svariati ubriachi precoci rende l´ambiente molto poco wild. I finlandesi non sono mai trasgressivi, anche il cunnilingus (ho studiato latino, io) che una signorina si gode guardandosi un concerto fra trentamila persone é molto… boh, politically correct?

48 gruppi in due giorni su quattro palchi e solo due neuroni per raccontarli, quindi guardate le foto. Molti meriterebbero menzione se non altro per la regola ”se li conosci li eviti”, ma é faticoso e noioso. Quindi passiamo alla ciccia, in tutti i sensi, i Turbonegro. Il vero spettacolo sono i membri delle varie Turbojugend finlandesi che si radunano e preparano alla battaglia, mica cazzi (c´hanno una Turbojugend anche in Costa Rica e in Italia no, che vergogna). Il mio spacciatore di dischi quassú ha lo stemma tatuato su un braccio, e quando, contro ogni regola di buona educazione finlandese, (che prevede l´invisibilitá del prossimo anche nelle occasioni piú improbabili, e vieta l´espressione di una qualsivoglia opinione)gli dico che é meraviglioso, risponde, fissandomi dritto negli occhi: ”the best band in the world”. Ma é un esercito vero?

Qualcosa della scaletta (ma non vi ci abituate): ”Wipe it ´til it bleeds” per iniziare, ”Gimme some”, ”Sell your body (to the night)”, il generale ordina ai soldati di spogliarsi e buttarsi in acqua (siamo al palco sulla spiaggia) e vedo sfrecciare tre quattro corpi nudi con berretti da marinaio, che poi ripassano con piglio orgoglioso tutti fradici. Ok. Quando lo racconto ad un´amica finlandese mi fa ”si ma quanti uccelli hai visto, tre o quattro?” ho un´educazione cattolica io, non fisso lí… peró le ragazze finlandesi sono simpatiche, fossi un uomo sarei terrorizzato. Ah, si, la scaletta: ”Drenched in blood”, ”Le saboteur”, ”Ride with us”, ”Get it on”, ”Don´t say motherfucker, motherfucker”, ”Are you ready”, ”Back to Dungaree High”. E la mia canzone, ”Fuck the world”. Che solo per il verso ”tonight I`m feeling fine, because I heard that denim´s back in style” meriterebbe il Nobel alla letteratura.

A Bologna erano riusciti a fare un concerto da panico con quei volumi ridicoli e poco pubblico, figuratevi qui. È una cerimonia, c´é un che di ipnotico e demoniaco.
I Von Bondies suonano in contemporanea ai Motörhead, immagino la loro gioia quando l´hanno saputo, e in effetti non se li fila nessuno, io compresa. Dei Motörhead sapete tutto. Momento piú alto: Lemmy che dedica ”God save the queen” ai Ramones che non ci sono piú. E non lo fa con finta commozione o con tristezza, ma con… disappunto, come se qualcuno avesse messo il sale al posto dello zucchero nella ricetta del mondo perfetto. Pochi giorni dopo é morto Killer Kane, niente da aggiungere, solo i miei saluti.
I 69 Eyes invece non muoiono mai, ok ok cosí é pesante, non li voglio morti, mi basta che tornino a coltivare patate, per l´amor di Dio… che noia… Jussi, scappa! Ti prego!
Gli Stray Cats mi tolgono dieci anni di vita e tutta la fatica di otto ore in piedi. Lemmy e Brian Setzer, come dire enciclopedia A-Z

Gli Hanoi Rocks mi commuovono, perché i fuochi d´artificio, le fiammate, le megaluci sul megapalco e il pubblico oceanico sono l´immagine di quel sogno che hanno solo sfiorato, sembrano cosí piccoli e indifesi.
Iniziano con ”Obscured”, altra canzone mia, poi stanno sui classici, tranne un´imprevista e incazzatissima Rosalita. Chissá se a forza di star qua e vederli tutte le settimane una volta mi fanno pure ”Dead by Xmas”. Mmm, quando ribecco Mike glielo chiedo. Chiusura Up around the bent e tutti a casa. Mi viene da piangere, non so se sono gli ormai proverbiali occhi da rana del mio attuale concittadino (va bene, la smetto) che mi intristiscono o il mal di piedi.

Secondo giorno: Backyard Babies all´una di pomeriggio, una e trenta per fare la cronista seria, concerto gradevole ma come si fa a quest´ora, é la differenza che passa fra il cd messo su in macchina il lunedí mattina andando a lavorare e lo stesso cd il venerdí sera mentre vi agghindate per uscire. Peró dai e dai cominciano a piacermi, valá, che il loro ultimo disco non é male, concerto meglio che a Milano, ma mai come al Pedro. Pensandoci, in quel posto ho visto i concerti piú favolosi della mia personale storia… siccome ho fatto lo sforzo di pensare alla scaletta, che tanto lo so che i nerds qua in mezzo quella vogliono, ecco qua: per cominciare direi niente di meglio di ”Everybody ready?”, poi ”A song for the outcast”, ”Year by year”, ”One sound”, ”Minus Celsius”, ”Earn the crown”, ”Highlights”, ”Star war”, ”Brand new hate”, ”Heaven 2.9”, ”Look at you” per chiudere. Contatto con il pubblico ridotto a recita, ”come on… (nome della cittá)” ”The …(aggettivo per nazionalitá) women are the sexyest in the world” e via blablaando. E´sempre un piacere, ma forse sono un po´freddo\professionale, sono in tour praticamente da 10 anni, non che sembri che si sono stufati, ma magari gli manca un po´di strizza per mantenergli la concentrazione.

I Negative sono sopravvalutati, di look hanno capito tutto, ma le canzoni sono loffie, oddio le tastiere! Del resto fossi in loro con un pubblico cosí di minorenni urlanti e stragnocche disposte a tutto non é che cercherei oltre il mio paradiso personale…

I Therapy? su disco sono un po´troppo intellettuali, (la semplice esistenza di uno spartito musicale é nei miei termini musica intellettuale) invece dal vivo sono belli ignoranti. Non credevo.
Weeping Willows eleganti e nostalgici, alter ego dei Monster Magnet che in effetti é un bel concerto tamarro, ma forse un po´troppo cliché, questa cosa della chitarra distrutta sul palco come mossa calcolata dá sui nervi, troppo machismo zero ironia, ma questo vale solo per la presenza, il concerto se non lo guardi é coinvolgente.
Flaming Sideburns tutto nervo, spettacolone, non mi compro i loro disci che sono troppo Settanta, ma dal vivo godevoli.

Il sex appeal del cantante dei Rasmus rimane per me oggetto oscuro…
Sono andata come un treno, con rapporti telegrafici tipici del ”critico musicale”, cioé quel tristo essere che vorrebbe essere una rockstar ma é grasso coi brufoli e gli occhiali a fondo di bottiglia, e cerca disperatamente il suo posto nel mondo fingendo competenze da formula algebrica dove conta solo l´emozione. Odio scrivere recensioni. Chiedo scusa, ho cercato di dare il maggior numero di informazioni salvando per quanto possibile il vostro tempo. Resto a disposizione per dubbi e mancanze.

Detto tutto, adesso tallenna (salva in finlandese, qualcuno lo vuole un corso di finlandese? é facile, indovinate che significa kakka) pausa sigaretta e mie conclusioni, la cui lettura e mooolto facoltativa.
Uno entra in una sottocultura (seee, ricomincio!) perché si sente diverso dalla norma, perché ha altre domande, perché si sente fuori (mai benediró abbastanza i Guttersluts per aver verbalizzato questo concetto!). Allora sono una glamster, ci credo, lo vivo, ma non so, ultimamente mi sento fuori di nuovo. Che abbia sbagliato sottocultura? Lo escludo, siamo i migliori. Ma forse il problema é il ”siamo”. Questo Ruisrock é stato forse il primo concerto in assoluto della mia vita in cui non ho incrociato nessuno che conoscessi, e sapete una cosa? Vedere Kill Kill che cade nel Po vale centomila Ruisrock, ma stavolta, tutta sola soletta con la bocca chiusa e gli occhi spalancati, ho ritrovato quel che avevo perso, quell´ottusa e infantile passione per la musica, perché eravamo solo io e lei, nessuno da cui guardarmi, intorno, nessuna minaccia al mio buonumore.

Intendiamoci, ci sono delle persone che adoro e che ringrazio tutti i giorni di aver avuto la fortuna di conoscere, fra i glamsters italiani, persone che conosco meno ma apprezzo e ammiro per quel che fanno, ma ci sono anche un po´ di cattiverie, un po´di grettezze, un po´di sorrisi falsi che mi fanno sentire… fuori. E non mi piace, perché al gruppo ci credo. Quassú é incredibile, i glamsters sono ovunque, e sono talmente tanti che neanche si conoscono fra loro. Nemmeno Londra é cosí. Da noi non é che se scappi vai molto lontano. Non é un invito al volemose bene, anzi. E´che le cose stanno andando bene adesso, siamo un bel po´, i concerti arrivano, la gente c´é, per merito di quei quattro cinque personaggi che si sbattono da una vita, e che proprio meritano un monumento per la tenacia. Voglio che duri, perché un´emozione condivisa é meglio, e non é la stessa cosa se entro al supermercato e trovo Mike e non ho nessuno a cui telefonare stasera per raccontarglielo e urlare un po´insieme come adolescenti.
Mara Persello

 

CHEAP TRICK
Shepherd’s Bush Empire, London, UK – 21 Luglio 2004

E’ un’afosa giornata estiva a Londra, la folla e’ gia’ in fila davanti all’Empire e non sono ancora le 6 del pomeriggio. Finalmente le porte aprono e rapidamente il locale si riempie, di facce non esattamente note… Ho recensito i Cheap Trick gia’ due volte in passato, per cui, amici miei, permettetemi di soffermarmi su quello che e’ uno spettacolo quanto mai insolito per chi, come la mia dolce meta’, non ha mai visto un concerto di Zander e compagni: il pubblico.
Cos’e’ un rocker? Ha un look, un’eta’, che vita fa? Nell’attesa che le luci si accendano sul palco, decidiamo di sederci, osservare, cercare risposte. Davanti ai nostri occhi passano personaggi di ogni forma e genere, bambini teenager e ultracinquantenni, bikers punkettari e newromantics, musicisti giornalisti djs e… impiegati di banca, ma si, anche se si sono infilati i jeans e la maglietta di un vecchio tour, sembrano cosi spaesati! Gente che non va fuori il mercoledi, non piu’, a meno che non e’ uno di questi giorni speciali; giorni in cui tutti i Clark Kent possono strapparsi via il colletto bianco e vestire la maglia del SuperRocker, e sfrecciare di nuovo liberi inseguendo una nota, liberi dal tempo e dalle regole che la vita gli ha pian piano imposto.
Confusi con questa schiera di occasionali frequentatori della rock-scene, ci sono quelli che hanno giurato alla regola di non avere regole, e, incuranti degli sguardi della societa’ benpensante, sfoggiano divise fatte di capelli rigorosamente incolti e giubbotti rigorosamente in pelle, coraggiosi penso, mentre mi squaglio nella mia magliettina di cotone.

Ci sono gli adolescenti, un po’ per divertimento, un po’ per imparare il segreto dell’immortalita’, un po’ per vedere uno dei gruppi che ha ispirato i loro stessi idoli. I Cheap Trick infatti, malgrado non abbiano mai raggiunto la vetta delle classifiche, sono sempre stati un gruppo di culto, i cui concerti fanno sold-out con largo anticipo e il cui nome viene annotato nell’elenco di influenze principali di numerosi artisti di tutti i tempi. Come Ginger, che non perde una data e anche stasera e’ qui tra noi, o Alex Product, che e’ venuto da Newcastle nell’unica data off del suo tour proprio per questo gig.
E ci sono gli addetti ai lavori, perche’ e’ un concerto di qualita’ e un’occasione socialmente imperdibile, un dovere di partecipazione semi-religioso, quasi come la messa della Domenica.
Dunque, chi sono i rockers qui dentro? Tutti? Nessuno? Centomila? Pensieri bruscamente interrotti dall’ingresso sul palco di Zander, Nielsen e compagnia, tutti membri originali, ci ricordano orgogliosi. E non ci puo’ essere canzone piu’ azzeccata di “Hello Kiddies” per salutare i giovani di spirito che riempiono stasera l’Empire tutto esaurito.

Tra robe targate 1977 e pezzi recenti, in una scaletta per altro abbastanza insolita, brillano come sempre le perle indimenticabili, gioielli di sano rock’n’roll come “I want you to want me” e la toccante vellutata ballad “The Flame”; il pubblico alterna rumorosa partecipazione a silenzioso, rapito ascolto, e nessuno sembra piu’ smarrito neanche un po’. Forse i piu’ giovani, che faticano sempre un po’ a vedere il Superman dentro il vecchio Clark Kent… A loro dedichiamo il ritornello della classica “Surrender”, che fa cosi: “Mommy's alright, Daddy's alright, they just seem a little weird. Surrender, surrender, but don't give yourself away, ay, ay, ay...”.
E mentre musica e luci sfumano, tra i vapori di questa moltitudine sudata e alticcia, mi sveglio dal piacevole torpore melodico in cui sono stata avvolta nelle ultime due ore, chiedendomi dov’ero rimasta. Ah si: chi sono i rockers…. Dal piano superiore scendono alcuni padri con i bambini per mano, e qualche allegra famigliola al completo… I rockers sono quelli che non si fermano davanti al pensiero della sveglia, di dove mollare i pupi, di andare da soli dove non si conosce ormai piu’ nessuno. I rockers sono quelli che senza pensare prendono i biglietti, e quando il giorno arriva lasciano la sveglia a casa, prendono il bambino in braccio e strappano il colletto bianco, e gli amici li troveranno li, sono tutti gli altri con la grande S sul petto.
Cristina Massei

 

BANG YOUR HEAD FESTIVAL
26 Giugno 2004 Ballingen (Germany)

Ebbene sì, siamo arrivati fino in Germania per assistere in prima persona al ritorno del ex-frontman degli Skid Row, e che ritorno! Grazie alla sua fantastica forma ed energia contagiante, ha lasciato a bocca aperta critici, fan ed organizzatori...
Il BYH è uno dei Festival metal/hard-rock più seguiti in terra crucca, e in questo caldo sabato sono stati ospitati illustrissimi ospiti; perciò, prima di passare al vero motivo della recensione, riassaporiamo i momenti più rilevanti di questa giornata:

ANGEL
Il gruppo più tamarro che ho visto negli ultimi dieci anni! Seconda data in Europa che segna il ritorno della band Americana capitanata da Frank Dimino. Affascinante e contagioso il carisma emanato dal bassista. Peccato che la band sia stata offuscata sin dalla nascita da un’altra stella del rock mondiale: i Kiss. Usciti contemporaneamente per la Casablanca, gli Angeli sono stati schiacciati dall’incontenibile successo dei diabolici Kiss, come ci ha confessato lo stesso tastierista Michael T. Ross.

LILLIAN AXE
Per la seconda volta sul palco il chitarrista Stevie Blaze (anche membro degli Angel) che introduce la sua band, i Lillian Axe. Famosi nella scena glam 80 per aver accompagnato in tour personaggi come la Ford, Krokus e Hurricane si sono poco a poco spostati verso un hard rock più carico di riff, tempestoso e lo hanno dimostrato benissimo questo pomeriggio, coinvolgendo tutti gli spettatori del festival.

UFO
Ed ecco ri-comparire i cari vecchi UFO che ci hanno allietato con le solite hits come “Doctor Doctor”, “Only You Can Rock Me” e “Rock Bottom”. Phil Mogg in formissima ma -non consapevole dell’età che ha!- si è divertito a esibire i suoi muscoli e pettorali per tutta la durata del concerto... va beh! Nonostante la staticità del front man, bisogna dire che l’esecuzione è stata spettacolare. Altra piccola pecca il caro Moore: sembra essersi dimenticato di essere in concerto con una band hard rock, e ha tempestato e soffocato con lunghi assolo – assolutamente fuori luogo - la performance del gruppo... ma lo perdoniamo!

Incredibile invece Pete Way, vero animale da palco: dopo anni e anni di sballi, droga e rock’n’roll è stato ancora in grado di saltare, correre, buttarsi a terra, urlare, aizzare il pubblico e suonare come un dannato... accompagnato da un eterno sorriso ed indimenticabile espressione di soddisfazione stampata in faccia.

SEBASTIAN BACH
Finalmente, dopo interminabili ore di attesa, apparire in attillatissimi pantaloni di pelle il biondone storico della storia dell’hard rock: Sebastian Bach.
Esplodono i boati e cominciano immediatamente, dirompenti le note di “Slave To The Grind”: delirio annunciato! Il pubblico partecipa ad ogni canzone, urlando ogni singola parola dei pezzi proposti... e Bach si emoziona!! Appena finito il primo pezzo si gira soddisfattissimo verso la band facendo notare il calore dei fan. Stupito ed incredulo torna a parlare con la folla sottostante e dice che ha sognato questo momento –un grande ritorno!- per tutti i dieci anni di assenza dalla scena live.

Il caro Sebastian, non eccede sicuramente in maniere fini... da subito non risparmia un idiota (!!!) in prima fila che sembra aver raggiunto quella posizione solo per insultarlo; e così via una raffica di FUCK per smorzare l’irriverenza del malcapitato. La scena si ripeterà più volte nel corso del concerto, ma sicuramente non serve a togliere al singer l’incredibile energia che si ha dentro di se.
Il concerto è concentrato sui primi due album degli Skid Row, infatti seguono a ruota sostenuti pezzi come “Piece Of Me”, “Monkey Business”, “Mekin’ A Mess”, “Big Guns”, “The Threat” ma anche le più nostalgiche e romantiche “18 And Live” e “I Remember You”... non vi dico il casino che ha scatenato quest’ultima!

Più e più volte il pubblico è stato incitato dal grido di Bach: “Here I Am” e la sua indiscutibile gioia che ha contagiato tutti i presenti!
Una bellissima mossa, da tipico (anti?!) Americano è stato il suo appello contro qualsiasi tipo di lotta ma soprattutto contro la guerra urlando: “I fucking hate war!” ... commozione generale!
Il front man lascia molto spazio anche alla sua nuova band che dimostra esperienza e capacità, soprattutto riuscendo a sostenere una mina vagante quale si è dimostrato Sebastian Bach. Scopriamo così che tre dei quattro elementi di questa formazione sono reduci da una comune esperienza nei ‘Dead Tight 5’: il chitarrista Randall X Rawlings, il batterista Mike Dover e il bassista Brian “Cheeze” Hall. Quest’ultimo sembra proprio essere il favourite kid di Sebastian, dato che più e più volte sul palco lo incita, abbraccia (?!?!!) e sprona ad esporsi verso il pubblico... notevole presenza scenica comunque; vedere per credere! Ed ultimo ma non ultimo il super biondo-ossigenato chitarrista Adam Albright, già negli Skinlab e Dopesick).

Arriva il triste momento dell’addio. Sebastian alza il braccio e, cosciente del fatto che il 99% dei presenti conosce a memoria il suo più famoso tatuaggio, chiede alla folla di ‘leggere’ le tre parole che ha inciso sul braccio. Ci lascia così l’ex Skid Row, sulle note di “Youth Gone Wild”.
E noi ci siamo tornati a casa con una fantastica esperienza sul groppone, sicuramente da non dimenticare ma soprattutto con in testa la promessa di Sebastian Bach di tornare presto, anzi prestissimo!
Laura Delnevo


 

WILDHEARTS + THERAPY + GLITTERATI
London, Hammersmith Palais – 10 Maggio 2004

Lasciamo da parte il fascino del Palais di per se stesso... Ma perche’ poi lasciarlo da parte? Dopo anni di piccoli gigs all’Underworld, grandi concerti ai venues della Carling e epici shows a Wembley, eccoci finalmente in un locale unico e leggendario quanto questo immortale maledetto geordie; simboli che i giganti non riescono a comprare, icone che se ne sbattono di costosi lavori di rimodernamento, perche’ i monumenti alla fine li vogliamo vissuti, imperfetti e riservati solo ad eventi speciali.
“E perche’ sarebbe speciale un concerto dei Wildhearts?”... Ok, chi ha parlato?? Tu! Cambia sito, cambia genere, e tanto che ci sei fatti anche un trapianto di cuore, va. Io proseguo a raccontare questo bel lunedi sera, per tutti i fortunati sani di mente in ascolto.

Torneremo sui protagonisti indiscussi a tempo debito. Ora entriamo col consueto ritardo per trovare sul palco l’ultima sensation britannica, i tanto discussi Glitterati.
Personalmente, di sensation c’e’ ben poco. Forse mezza apertura di concerto non rende loro giustizia completa, ma per quel che posso vedere si tratta dell’ennesima graziosa formazione sull’onda di Jet e Libertines, sia per quanto riguarda il look sia per la musica, e anche il singolo di maggior successo "Do you love yourself" con cui chiudono l’esibizione mi sembra deboluccio. Piacevoli, orecchiabili e freschi senza dubbio, consigliati se vi piace il genere, ma c’e’ ancora spazio per crescere, e parecchio. Il mio profano consiglio e’ di ascoltare con rispetto e concentrazione gli headliners cercando di inalare un pochino di quel genio che fa la differenza tra Ginger e il resto del mondo...
E dai giovani virgulti apprendisti passiamo ai vecchietti riesumati dalla casa di riposo per rockers scaduti, in occasione di questa strana e sensazionale serata: signori, i Therapy. Ahia. Facile intuire che gli ultimi anni li hanno passati piu’ a un tavolo da briscola che in una sala da rehearsal. I tre sono scoordinati, stanchi, deludenti. Tuttavia, con l’aiuto delle solite 4-10 pinte, che magicamente amalgano gli strumenti sfumandone i i ruvidi anacronistici conflitti, e’ bello assaporare il gusto del revival, mettere indietro la clessidra e gustarsi dall’alto del bar il pezzo forte della serata, quel "Going nowhere" che nessuno di noi ha mai dimenticato.

Ma tra il troppo nuovo e il troppo vecchio vince l’eterno, e tra il troppo inesperto e il troppo consumato vince l’artista, il genio, la passione, la musica che nasce da se’ e non ha bisogno di prove e non si deteriora, le note di “Wanna go where the people go” si diffondono nell’aria, entra Ginger, mai troppo giovane mai troppo vecchio, entra Ginger, un tranquillo padre di famiglia che sa ancora sentire, provare, soffrire fino a tentare il suicidio, Ginger che non si e’ mai chiuso in una stanza per scrivere questo, non l’ha mai scritto in verita’, l’ha sentito, l’ha tirato fuori dal suo cuore e diviso col mondo, diviso la gioia, il dolore, forse per non impazzire... Ginger. Ancora una volta quel maremoto indescrivibile che ti fa venir voglia di abbracciarlo, strangolarlo, baciarlo.
“Greetings from Shitsville”, signori, e non posso fare a meno di chiedermi se e’ davvero questa One Way Street che ha la prerogativa di crescere fiori maledetti come noi, come Ginger, come Danny che stasera purtroppo non e’ qui, come i duemila circa che cantano insieme a me ora. Amata odiata Londra, droga letale, non sai perche’ ci sei arrivato e ancor meno come uscirne, ma vuoi uscirne poi?
E’ il momento di “Wildhearts must be destroyed”, e ribadisco l’eccezionale resa live. Immancabili “Top of the world” and “Vanilla radio”, ma il vero gioiello da quest’ultimo lavoro e’ “Someone that won’t let me go”, che porta l’album sempre piu’ in alto nelle mie classifiche di gradimento gingeriane.
Sapevo dell’ingresso in scaletta di “Girlfriend clothes”, poi a togliermi il fiato c’e’ “Beautiful thing you”, b-side tratto nientemeno che da “Suckerpunch”, annata 1994. Tra generosi siparietti di Ginger e una successione di brani quantomai insoliti, accompagnati da una quantita’ indefinita di JD&Coke e lacrimucce di commozione, arriva il momento del break.

Il lunghissimo bis ci porta immancabile “My baby is a headfuck”, commovente l’Hammersmith Palais visto dall’alto del bar, che alza le mani in un unico “I’m just a mess”, e sto pezzo lo sottolineero’ finche’ i Cuori Selvaggi continueranno a proporlo, perche’ e’ la mia personale highlight, lo e’ sempre stata. E stasera ce n’e’ un’altra, nuova:
e’ a un certo punto dopo “Caffeine Bomb” che le familiari note di “Cheers” si diffondono, insieme ai lacrimoni nei miei occhi. Questa davvero non me l’aspettavo, pensavo fosse una cover buttata li per coprire un b-side, pensavo piacesse a me e pochi altri, e invece sembra che gli oltre duemila presenti a volte vogliano essere dove tutti sanno il tuo nome, e tutti sono contenti di vederti, dove puoi vedere che i problemi sono tutti gli stessi... You wanna go where everybody knows your name. E quel posto stasera e’ il vecchio Palais, e il nome di Ginger lo cantiamo ora tutti insieme.
E devo finirla qui perche’ sento che e’ arrivato quel punto dove le emozioni non possono piu’ descriversi a parole, dove parte di voi staranno mormorando sotto i baffi “ma che c***o dice la Penny??”. Vi lascio, con una rabbiosa “She got me”. Sorry: “HE got me”. Again.
Cristina Massei


 

MONSTER MAGNET + GLUECIFER + QUILL
London, Shepherd’s Bush Empire – 12 Aprile 2004

Considerata la brutta esperienza raccontata da coloro che hanno assistito alla puntata italiana di questo blasonato tour, mi aggiungo a Laura (Delnevo. NdC) per confermare che si trattava solo dell’ennesimo episodio di sfiga concertistica capitato al nostro Paese.
Nella realta’, questo e’ un trio live che non si dimentica.
I Quill, seppure limitati a sei pezzi, quasi tutti tratti dall’ultimo gioiello “Hooray! It’s a deathtrip”, dimostrano di aver rapidamente raccolto l’eredita’ dei Soundgarden di Chris Cornell e averla elevata all’ennesima potenza, portandola fuori dalla limitante etichetta “grunge” e promuovendola al reparto “Rock” con tanto di R maiuscola. Da annotare il lungo jamming di “Hole in my head”, con Danny Young dei Gluecifer alla batteria insieme a George Atlagic; da lodare, un uomo sopra tutti, il vocalist Markus Ekwall, e un pezzo sopra tutti, la splendida “Come What May”.

E mentre il grunge faceva da gigante nei Novanta, il rock’n’roll, con le spalle larghe e la grinta di gente come Hellacopters, Supersuckers e Backyard Babies, difendeva a vista il suo feudo, che in questo ventunesimo secolo sembra finalmente destinato ad espandersi di nuovo. Uno dei gruppi sentinella di tale indistruttibile fortezza e’ senz’altro quello dei Gluecifer, che raccolgono la fiaccola dai colleghi scandinavi e infiammano il palco con undici pezzi dalle piacevoli venature punkeggianti; l’Empire ora si e’ riempito, la gente partecipa con entusiasmo, e i ragazzi ne approfittano per presentare in maggioranza pezzi da “Automatic Thrill”, una delle gradite sorprese di questo 2004. “Here come the pigs”, “Car full of stash” e Captain Poon sono ancora meglio live che sulla carta; Biff Malibu e’ un frontman che a detta di molti ha una sola pecca: il look... Pecca? Mah, se piu’ gente si concentrasse sulla musica come fa lui magari potremmo tutti guardare al futuro del rock con maggiore ottimismo. Anche qui si chiude con un jamming, stavolta alla chitarra, con Phil Caivano dei MM che aggiunge le sue chitarre alla gia’ leggendaria cover di “Surrender” dei Cheap Trick.

Ed e’ finalmente ora degli headliners, attesi con ansia considerati i recenti problemi vocali del vocalist. E vi diro’, non solo Wyndorf sembra aver egregiamente risolto tutto, ma la band di stasera non si limita ad accompagnare la sua ottima performance: le chitarre di Mundell e Caivano sono colonne portanti di questo memorabile show.
Apre “Bummer”, e “Powertrip” domina l’apertura con altri due pezzi, poi si da il via a “Monolythic Baby”; “Dinosaur Vacum” e “Brainstorm” tra i brani che ci conducono all’encore, “Who wants some spacerock?”, ora di “The right stuff” e “Spine of God”. Chitarre spaccate, e’ rock in tutto il suo splendore, violenza, rabbia. Pubblico sudato, ubriaco, soddisfatto.

Un concerto qualitativamente superlativo e un accostamento che mette a fianco tre diverse sfaccettature del decennio che ci lasciamo alle spalle, dimostrando che non c’e’ epoca nella storia in cui la musica non abbia prodotto qualcosa da ricordare, conservare e cantare per molti anni a venire... a volte per sempre.
Cristina Massei


Pix A2*NA

 

GODS OF METAL
6 Giugno 2004 - Arena Parco Nord - Bologna

Il Gods Of Metal si sà, è uno degli avvenimenti musicali più attesi dell'anno per ogni rocker/metallaro che si rispetti, e quest'anno lo spettacolo che viene proposto a Bologna sembra essere particolarmente appetibile.
Per cause non propio "professionali", siamo costretti a seguirne solo la seconda giornata, diciamo quella più attesa per ogni appassionato del buon vecchio hard rock, anche se la reunion dei metal gods era altresi un evento da non perdere... e per cause altrettanto poco "professionali" io, il boss e il buon Martins ci perdiamo i pur validi gruppi d'apertura (per la cronaca DRAGONFORCE, STORMLORD, NAGLFAR), credendo e sperando di arrivare in tempo per i crucchi SODOM.

All'ingresso nel parcheggio dell'arena Parco Nord la frase "We Are the Quireboys!" ci lascia perplessi ed allo stesso tempo ci infonde la giusta carica ed ansia per correre verso il palco, perplessità presto chiarite: il giorno prima sembra esserci stato un "mini diluvio universale", gli U.F.O. sono stati avvistati in un campo di grano a Rho, gli STRATOVARIUS sono stati incastarti dopo i QUIREBOYS e forse... forse gli W.A.S.P. danno buca!

QUIREBOYS
Come gia' accennato, ci accingiamo al palco a concerto gia' iniziato, ed il primo colpo "d'orecchio" ci mostra un gruppo un po' penalizzato, soprattuto per quanto riguarda la sezione ritmica, mentre la voce del divertente e divertito Spike risuona chiara in tutta l'arena... il pubblico gia' abbastanza numeroso sembra essere piu' che coinvolto da canzoni quali "This is r'n'r" e "7 o'clock", nonostante sia stato sfamato fino a poco prima da thrash e black metal, e la carica dei cinque fa saltare e cantare tutti i presenti.

Lo show dura veramente poco, e probabilmente i Quireboys sono piu' apprezzabili in un contesto da club fumoso, ma con "Hey you" riescono a chiudere in bellezza uno spettacolo godibile e di gran qualita'!... this is r'n'r!!!

STRATOVARIUS
Un cambio palco veloce ed ecco apparire la prima novita' della scaletta, il primo telo retropalco discutibilissimo (trattasi della datata copertina di Visions) e i capelli biondissimi e fluenti di Kotipelto.
Dire che i nordici sono diventati la parodia di se stessi e' poco, e tutto questo nonostante un pubblico abbastanza coinvolto, dei pezzi apprezzabilissimi e l' ottima tecnica dei musicisti (anche se mi sembra di aver udito qualche sbavatura abbastanza evidente di Tollki). Il feeling tra i componenti manca, ed anche vere bordate come "Forever Free" e "Kiss of Judas" non riescono a trasmettere vibrazioni positive; da notare come il biondo singer presenta solamente il bassista e il batterista, mentre il Timo "meno in forma" resta in disparte svolgendo il suo compitino, come gia' detto neppure benissimo, rovinando un pezzo pregevole come "Speed of Light".

Sempre da Episode vengono tratte "Forever" ed "Eternity", mentre dal repertorio piu' recente la melodica "Hunting High & Low" dal refrain trascinante. La scarsa prestazione (peggiorata da un'amplificazione fiacca) finisce con la solita "Black Diamond" e con un Kotipelto intento a far urlare una frase incomprensibile al pubblico, probabilmente un addio in finlandese...
Dispiace vedere un buon gruppo finire in questo modo, ma se questa deve essere l' ultima prestazione dei finnici con la line-up originale, ci hanno lasciato un brutto ricordo!

W.A.S.P.
Dissipati i timori circa la defezione di Blackie e co., il pubblico si scalda, e dopo aver schernito il simpatico roadie intento a montare l'asta/scheletro del "Senzalegge", esplode letteralmente all' ingresso del combo americano.
Si inizia con il botto e non ci sono commenti sul medley proposto in apertura: "On your knees/Inside the electric circus/The Hellion/Chainsaw Charlie"... gli W.a.s.p. dimostrano di essere in gran forma e, nonostante i soliti problemi acustici del festival (la voce va e viene troppe volte), ci atterrano definitivamente con "L.O.V.E. Machine".

Si capisce sin dall'inizio che lo show vuole essere incentrato sui vecchi classici e viene letteralmente lasciato da parte il repertorio piu' recente: "Wild child", "Animal" e "I wanna be somebody" continuano il massacro, il pubblico canta sostenuto dai convolgenti compagni di viaggio di Lawless, e un vero spettacolo lo offre Stet Howland dietro le pelli, facendo roteare in aria piu' volte le gigantesche bacchette, con le quali sul finale buca le pelli modello "ti infilzo senza pieta'".
Lo show termina con "The real me" e "Blind in Texas", purtroppo non c'e' ombra di sangue e carne sul pubblico, ma siamo tutti consapevoli di aver assistito ad una prestazione positiva e carica di energia, la giusta premessa per il terremoto che sta per arrivare.

TWISTED SISTER
Credo che gran parte della gente fosse accorsa per loro oltre che per lo zio Alice, e la posizione in scaletta e' quantomeno discutibile e penalizzante, ma nessun problema...a smentire gli organizzatori ci penseranno i..."Sick Motherfucker"...
Esplosivi, irriverenti, dei veri animali da palco condotti da una bestia feroce, quel Dee Snider su cui nutrivo qualche dubbio non avendolo mai visto live (se non sbaglio erano 15 anni che non venivano in Italia") e che mi ha smentito con un calcio in culo clamoroso... la sorella del rock ha spazzato via tutto e tutti con i pezzi e la carica che li ha resi famosi, il buon Dee e' riuscito a far alzare anche chi era sdraiato sulla collinetta mimandolo e deridendolo di fronte ai fans osannanti, ha mandato a fare in culo e si e' fatto mandare in culo, si e' permesso di autoproclamare la propria band come Headliner per l'edizione 2005 (...magari...) ed ha fatto cantare tutti i presenti con grandi classici come "I wanna rock", "I am" e "We're not gonna take it", oltre ad altre chicche tratte dalla loro discografia piu' heavy tra cui la stupenda "Burn in Hell".

I T.S. sembrano non aver mai smesso di calcare i palchi insieme, il feeling era incredibile ed anche la resa sonora e' stata quasi perfetta... in definitiva i veri mattatori del festival, che non avrebbero sfigurato nemmeno come gruppo principale, e che forse meritavano uno "slittamento" verso l'alto, pur avendo di fronte bands di tutto rispetto.
Spero presto in un loro concerto, magari su di un grande palco un po' piu' scenografico e con una set-list piu' lunga dei 45 minuti che gli sono stati concessi.
Lunga vita ai Twisted Sister!

MOTORHEAD
I pazzi non vanno mai in giro da soli...e dopo i T.S. eccone arrivare degli altri.
"We are Motorhead, and we're gonna kick your ass"... mai ritornello fu piu' adatto: ma che volumi hanno utilizzato Lemmy e la sua banda? E per di piu' dopo la prima gia' citata "We are Motorhead" e "No Class", i nostri hanno avuto anche il coraggio di chiedere al pubblico se si sentiva abbastanza e con un gesto eloquente sembra abbiano fatto dare un ulteriore giro alla rotellina del Master.
Fatto sta che il concerto si e' trasformato in un massacro sonoro, gradito dai piu' (soprattutto da un pazzo che ha gettato vestiti e occhiali in una pozza e ci e' pure saltato dentro :-I), osannanti alle note dei classici "Overkill", "Over the top" e della ormai storica cover dei Pistols "God save the Queen" (...e possibilmente anche i nostri timpani).

Con "Killed by death" si apre il siparietto piu' divertente del Gods: si intravede Mark Mendoza a lato del palco, e "cavallo pazzo" Dee Snider fa irruzione on stage, si appropria del microfono del buon Phil Campbell e duetta con Lemmy... che scena memorabile e che ulteriore scarica di adrenalina per i presenti... due vere leggende che si divertono e che fanno divertire.
Dopo il giusto e commosso saluto a Joey e D.D. Ramone, e' il turno del martello Mikky Dee di mettersi in mostra (sara' una malattia dei Dee?!?) con un assolo spettacolare che inframezza la potente "Sacrifice", assolo che mette in evidenza quanto il biondo batterista sia uno dei migliori sulla scena al momento, ascoltare l'ultimo Helloween per credere!
Il vero sacrificio si compie con l'inno "Ace of Spades", e i Motorhead salutano e se ne vanno a testa alta, come sempre, dando l' impressione che un gruppo cosi' lo si possa ancora trovare sul palco fra 10/20 anni.

TESTAMENT
Ritorna ad incupirsi l' atmosfera del festival, anche perche' il sole cocente inizia a calare, mentre sul retro palco sale un telo grigio con logo bianco in perfetto stile Bay Area anni Ottanta.
I Testament devono sostenere la responsabilita' di venire dopo delle autentiche leggende e di fare da apripista per un' altra, e devo ammettere che ci riescono nel migliori dei modi, anche perche' la formazione che accompagna Chuck "orso" Billy e' delle piu'competitive che l'indiano abbia mai avuto: Paul Bostaph dietro le pelli, Steve DiGiorgio al basso e Metal Mike Chlasciak ad affiancare il solito Eric Petersen.
Si parte con i pezzi piu' nuovi, ma l'atmosfera si scalda solo con l'esecuzione di "Practice what you preace", "Burnt Offerings" e "Into the Pit", dei cavalli di battaglia intramontabili.
Il sound e' ovviamente potente e compatto, grazie anche alla classe dei musicisti che stanno calcando il palco, anche se a mio avviso ai Testament manca quel tocco nelle parti soliste che dava il buon Scolnick, tocco che e' mancato nell' esecuzione della melodica e in un certo senso hard-rockeggiante "Electric Crown", tratta dal controverso "The Ritual".

Lo show continua nel migliore dei modi, vengono saltate molte chicche presenti su "Souls of Black", forse per la solita pecca solista, ma viene preferita una scaletta incentrata sulla produzione piu' veloce e pesante della band.
L'imbarazzo sopraggiunge solo sul finale, quando una riduzione dell' amplificazione, dovuto allo sfuoramento dei tempi, divenuta poi totale, costringe i Thrash-Gods a finire il concerto con la sola back-line, creando un leggero scontendo nel pubblico che prima fischia e poi applaude i bravi Testament, "invitati" ad uscire nel piu' brusco dei modi ma comunque apprezzati e incitati.
Voglio mettere una nota di apprezzamento per il pubblico, il quale ha assistito con lo stesso coinvolgimento e passione la band sopracitata, se pur in un contesto forse inappropriato.

ALICE COOPER
Finalmente si giunge alla ciliegina sopra la torta; mi aspetto un po' di scenografia e qualche luce in piu', ma l' unica cosa ad evidenziare l'headliner e' un palco leggermente piu' profondo ed un retro palco con impressi gli occhi dello Zio che scrutano l'arena.
Un boato accompagna l'uscita di uno dei personaggi piu' coinvolgenti e carismatici dell' intera scena rock, che ha influenzato almeno due o tre generazioni di musicisti e che ha creato quello Shock Rock tanto in voga ultimamente... ladies & gentlemen: Alice Cooper.
"No more mr. Niceguy", "Billion dollar Babies" e "School's out" scandiscono i vari atti di quello che si presenta piu' come uno spettacolo teatrale che non come un concerto. Alice viene accompagnato dai figli che mettono in scena una specie di commedia tragi-comica, mentre lui imperterrito dirige un band composta da buoni musicisti, tra cui spicca il batterista italo-americano, autore di una buona scena e di un assolo di circa 15 minuti, a mio parere pero' non competitivo con quello offerto poco prima dal tozzo Mikky Dee.

Lo show si basa per la maggior parte sul repertorio piu' vecchio di Alice, quasi a dimostrare che il vero Cooper e' quello dei Seventies e non quello del rilancio con splendidi album come "Trash" e "Hey Stoopid!".
Trovano spazio cmq. anche brani tratti dagli ultimi lavori come "What do you want from me?"
o "Brutal Planet" ed ovviamente la acclamata e cantatissima "Poison", vero inno hard-rock per i nipoti piu' "giovani" dello zio (ormai neanche troppo giovani!).
E cosi', tra palloni rossi blu e bianchi, fioretti e cilindri, si conclude in bellezza anche questo Gods of Metal 2004 che, almeno nella seconda giornata, ha soddisfatto i presenti e fatto divertire gli amanti di ogni genere.

Concludo con una proposta: cosa ne direste di un G.O.M. 2005 TWISTED SISTER e MOTLEY CRUE come headliners? ...nell'attesa che qualcuno esaudisca le mie "preghiere", FUCK YOU SICK MOTHERFUCKERS!!!
Paolo Pirola

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