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Photo by Rob'N'Roll

 

R’N’R Damnation (Decadenza + Krys)
Jailbreak, Roma – 29 Febbraio 2004

Domenica 29 Febbraio si è inaugurata presso il Jailbreak di Roma, la prima serata del R’N’R Damnation, ossia un movimento che cerca di far crescere il movimento r’n’r nella nostra bigotta penisola…Purtroppo l’abuso di matita nera, di lacca, di lustrini e quant’altro che ci aspettavamo non si è verificato, molti “personaggi” che di solito sgattaiolano dalle loro tane per eventi più blasonati non si sono visti, ma si sa “it’s a long way to the top (if you wanna r’n’r)…
La prima serata ha visto alternarsi sul palco due band romane, i Krys e i Decadenza…

KRYS: Ho conosciuto questa band negli ultimi scampoli del 2003 e fin da subito l’ho amata per via del song writing delicato e vellutato, per la loro capacità compositiva così dannatamente nordica, per la loro decadenza tipica di band quali Dogs D’Amour, Quireboys o Dogtown Balladers e quindi la curiosità di vederli dal vivo era davvero tanta… La band decide di aprire la propria esibizione con “Every Single Day”, un brano nuovo presumo, perché assente nel loro splendido debut “Hope And Tears”, ma che lascia subito trasparire come il suono della band, dal vivo, sia molto più robusto ed energico rispetto a quanto proposto su cd.

Un buon inizio non c’è che dire, ma è con “Queen Of The West”, “A Letter To Hel( l )sinky, brano dedicato ad alcune band che hanno influenzato le radici della band, e con la splendida “Take Me Away” che i nostri conquistano il pubblico, tre autentiche perle di pura rock intimista, tre spaccati di paesaggi desolati, calda come un deserto “Queen Of The West”, fredda e tagliente come la notte svedese “A Letter To…”, un canto dell’anima “Take Me Away”. Si prosegue con “Killer Clown”, “Sly Girl”, “Day By day” e “I Love You” (tutte estratte dal debut sopra citato) inframezzate da una manciata di nuovi brani tra le quali spicca la “Misfitiana”, almeno per quanto riguarda l’horror attitude, “Halloween Town”e “Trick or Treat”. Non mi ha convinto per nulla invece “Not Time To You”, brano interpretato dal bassista Nasty, la cui timbrica vocale, eccessivamente sporca e rabbiosa, non si adatta per nulla alle sonorità della band, limite che ho riscontrato anche nei cori delle altre song… Nel complesso una buona esibizione davvero, una band che col tempo può solo crescere…

DECADENZA: A distanza di qualche mese dalla loro ultima esibizione all’interno della serata “No Slapper” ho di nuovo il piacere di assistere ad una performance di questi “Dandy Of Vice” romani e quanto visto ieri sera conferma il fiume di belle parole spese in passato per descrivere questa band, ormai perfettamente a suo agio con una chitarra in più, che come già detto in altre occasioni, dona maggior spessore e corposità ai brani, già eccellenti di per sé…La band si presenta al pubblico con un paio di brani nuovi, estratti dal loro imminente Ep, “Fame Di Rumore” e “Ego” che denotano uno spessore compositivo notevolissimo, una spanna sopra alle composizioni medie della nostra triste penisola; brani nuovi dicevamo, ma che dopo poche note sembrano già dei classici della band, perfettamente arrangiati, maledettamente taglienti, morbosamente veri. Un tuffo nel passato buio e cupo della band con “Anime”, “Specchio” (splendida power ballad) e “Giudy” (se vi siete mai chiesti che suono abbia l’eroina, questa song risponde al vostro interrogativo) inframezzate dalla nuova e maestosamente decadente “Polvere Di Lei” , brano sanguigno, dolce come l’aroma del miele selvaggio, rassicurante come il sorriso di sua maestà lucifero, poesia vera…”Brucia lento in me, il demone di un folle che senza un rumore mi ha privato della tua bocca, amante del peccato”!!! “No Hey Banda”, altro brano nuovo, altra cronaca di un successo annunciato, ma che la band aveva eseguito in maniera migliore in altre performance, ma questo non sminuisce il valore di questa song dal dubbio valore morale, una song dall’indubbio disprezzo per l’ipocrisia.

“Punto Di Non Ritorno”, “Hey Man” e la vecchia “Maelstrom” sono tra i brani migliori della serata, quelli che incarnano in pieno il nuovo spirito dei Decadenza, sempre in bilico tra quelle ritmiche pompose e potenti, che hanno nei Backyard Babies e i Turbonegro i loro maestri, e melodie/armonie magiche, sorprendenti, a metà tra strada tra incubo e sogno, tra cielo e inferno tanto care ai “Partners In Crime” Prima di lasciare il palco la band ci delizia con tre cover che fanno ormai parte del bagaglio genetico dei vari membri: si comincia con “Degenerated”, già portata in auge dal film “Airheads” e da quel gran gruppo che erano i D Generation, “Riot Act” sulla quale non vale la pena spendere parole, interpretarla non è cosa per tutti, c’è chi può e chi non può Killo (im)modestamente può!!! Si conclude con “Whole Lotta Rosie”, se il Jonna non suona un pezzo degli AC/DC ad ogni sua performance si sente male, lo dovete capire ;). Quella di ieri sera è stata l’ennesima grande prova di una band fottutamente narcisista, egocentrica, superba, strafottente, arrogante, menefreghista, lontana da ogni trend imperante, scevra da compromessi o facili soluzioni, una grande prova di una grande band che ha “Fame Di Rumore”!!! Support them or die!!!

Se nella scaletta fosse stata inserita anche “La Mia Strada” (correte a scaricarla su www.decadenza.com) la serata sarebbe stata perfetta, ma è solo un mio cruccio.
Concludo questo report nella speranza di poter recensire altri mille di questo R’N’R DAMNATION…
Infine un ringrazimento al Jailbreak che ha fatto in modo che tutto ciò avesse luogo, a Moreno e a Slam Magazine (www.slamrocks.com la bibbia del r’n’r) per la loro collaborazione.
King Of Outlaw

Ginger & PacinoGinger & Simone Piva

Photo by Simone Piva

 

DARKNESS + WiLDHEARTS
Alcatraz, Milano – 23 Febbraio 2004

Buonasera,
e benvenuti all’ennesima puntata della rubrica “pacino vs. la lingua italiana”.
Questa volta parlerò del concerto dei Darkness e dei Wildhearts, come i più accorti di voi avranno desunto dal titolo riportato cinque righe fa, in una specie di parodia di recensione che neanche No Respect si azzarderebbe e che a conti fatti solo Brum! –la cui credibilità ormai è sottoterra- avrà il coraggio di pubblicare.

E’ stata l’occasione per me di espandere altri concetti di conoscenza, interazione e analisi dell’es. Un concerto mistificante ed erogeno. Il trionfo del pene come simbolo di ribellione, nonché l’occasione di fare un po’ di analisi socio-relazionali ma uber alles di farmi i cazzi degli altri in maniera piuttosto molesta.

Affronterò quindi questa patetica imitazione di recensione analizzando lo spettro psico-sociologico dei due personaggioni principiali coinvolti nell’ambaradan milanese: Ginger e Justin Hawkins. Vi prego di considerare quanto scrivo qui di seguito come l’equivalente letterario dello schiacciarsi un puntazzo nero, chè in me non vi è nessuna velleità pascoliana, so to speak.

Partiamo dalla band di apertura, i Wildhearts, che en passant sono la mia prima, seconda e terza band preferita; ma siccome l’incoerenza è femmina, è stata pure la prima volta che li ho visti dal vivo in tutta la mia vita, yo! E ne sono rimasto sconvolto, al punto che oggi mi trovo a invocare la morte perché tanto, come cantava quel tale che ha venduto più dischi di me, “life can’t get better than this”.

Essere Ginger, su scala assoluta, dev’essere un incubo. Intendo, essere un genio assoluto, incidere mezzo miliardo di canzoni tutti praticamente masterpiece ed essere comunque confinati ai confini del music biz che conta dev’essere un affanno non da poco. Trovarsi di spalla, dopo poco più di quattordici mesi, alla band alla quale hai praticamente offerto il break, deve far girare un poco i maròni. Uber alles, per scrivere i testi che scrive lui bisogna avere dei demoni dentro mica da ridere, e perfino la mia minianalista è rimasta impressionata dalla circonlocuzioni cerebrali assolutamente atipiche del genio-ginger, sentenziando che –con ogni probabilità- la sua sindrome cocco-banana è più fuori controllo della mia. E per subire un orrido castigo come il trovarsi a girare in lungo e in largo per un Alcatraz strapieno venendo cagati zero se non da me e dal Piuitz bisogna essere stati minimo il Dottor Mengele, nella vita precedente.
Insomma, la vita è ingiusta, il destino è bastardo ed essere Ginger è una bella responsabilità e una discreta rottura di coglioni.

La formazione con cui si presenta è quella classica, con l’eccezione dello Zio Fester al basso, il cui BC Rich Warlock ha comunque risvegliato il defender che è in me. Ginger ha sempre i dreadlock, CJ è sempre un invito all’omosessualità da quanto è bello, e Stidi spacca il culo punto.
La scaletta è assurda, molti dei fan dei Wildhearts presenti hanno avuto da ridire, ma visto che come al solito c’era chi li ha booati dall’inizio alla fine io mi sono tenuto bello stretto la mia erezione e mi sono goduto oltre alle hit classiche “I wanna go where the people go”, “Greetings from Shitsville”, i singoli più recenti come “Vanilla Radio” e “Top of the World” anche pezzi che maaai avrei pensato di poter sentire come “Beatiful Thing You”, “Jonesing for Jones” e addirittura roba tipo “Girlfriend’s Clothes”. Gente entusiasta = 3% dei presenti, ma erano davvero fuori di testa e con le lacrime agli occhi.
Confido, con la fede che ho ritrovato nelle ultime due settimane, nella giustizia celeste e di conseguenza resto convinto che la volta che Ginger si laverà i capelli giustizia verrà fatta e avremo i Wildhearts primi in classifica dagli appennini alle ande, CJ nudo su playgirl, Ginger ospite al Maurizio Costanzo e Stidi nelle mani di un bravo oculista.

Al contrario, dal punto di vista di un poser wannabe qual io sono essere Justin Hawkins dev’essere una figata, di sti tempi. Tutti ti vogliono bene, tutti ti comperano i dischi, i true rockerz così come i tredicenni ti amano e ti rispettano e ti puoi divertire a pigliare per il culo il tuo pubblico facendogli cantare ritornelli che anche Mina avrebbe problemi a, uhm, interpretare. I falsetti strozzati delle dozzine di dozzine di paganti presenti all’Alcatraz, per quanto mi riguarda, sono stati il momento più alto della serata.

Essere Justin Hawkins è davvero meraviglioso anche dal punto di vista di un ometto in crisi esistenziale e in analisi da ormai tre anni e mezzo: hai trovato il tuo posto nel mondo, e per il prossimo lasso di tempo (che sia un quarto d’ora o un quarto di secolo, chissenefutt) qualsiasi cosa tu decida di fare sarà cool, ti metti i vestiti smessi di Kevin DuBrow dal tour di “Metal Health” e tutti dicono: “figo”, ti metti i calzini corti bianchi e tutti dicono: “figo”, insomma, un’esperienza liberatoria, catartica, elevatrice e appagante, più ancora del farsi i pompini da soli, azzarderei.

Dovendo per forza parlare del concerto, mi limito a tre righe: i Darkness hanno stiracchiato il loro unico, meraviglioso disco per un’ora e un quarto (della serie: intro infinita, versioni dei pezzi da nove minuti e blablablà), giocato col pubblico, falsettato, sfoggiato chitarre da sincope immediata, dato lezione di stile a chiunque. Mi son piaciuti da morire. Ma dovendo essere completamente onesto, ero talmente rintronato dall’aver abbracciato Ginger e dal potermi conseguentemente vantare di avere un po’ dei suoi acari sulla mia giacca che il concerto mi è arrivato, come dire, un po’ ovattato. Ma tanto lo sapete tutti che i Darkness sono meravigliosi, non è che adesso devo venire io a scrivere “i Darkness sono meravigliosi” per farvi commentare cose del tipo “ma dai, non me n’ero accorto, ziocan”.
Pacino

 



Photo by Cristina Massei

 

BACKYARD BABIES
100 Club, London, UK – 16 Gennaio 2004

Fresca la notizia del forfait ai Wildhearts, accingiamoci dunque a recensire quello che sembra destinato a rimanere il mio unico concerto dei Backyard Babies post Stockholm Syndrome. Eh si che quello che ci troviamo di fronte tutto e’ meno che un tipico gig a supporto di un nuovo album.
E’ un tranquillo venerdi invernale a Londra, quando io e un nutrito contingente veneto ci incontriamo a Oxford Circus per assistere a quello che puo’ essere visto solo e soltanto come un omaggio ad una fan base straordinariamente fedele, rispettata e senza dubbio alcuno strameritata.

Il luogo del delitto e’ il minuscolo e inusuale 100 Club su Oxford Street, con una crew chiaramente poco avvezza ai deliri del rock’n’roll, che ci lascia ben due volte entrare indisturbate in sala durante il soundcheck. Il gig e’ ovviamente sold out da un pezzo, ma, grazie alla infinita gentilezza di Nicke, io e la Barbara ci troviamo con un sospiro di sollievo i nomi sulla guest, e finalmente siamo dentro. Un occhio al merchandise, poi si mollano i cappotti gratis dietro al bar, insomma, tutto molto insolito e familiare, quasi un grosso party tra amici di vecchia data. E come ci si aspetterebbe infatti da una “old time reunion”, i Backyard Babies sono qui per ricordare con noi i tempi passati e festeggiare una carriera fatta di note, emozioni ma soprattutto di questa gente, che caldamente si riversa sotto il piccolo palco dell’intimo venue londinese.

“Look at you” apre le danze e i cori, inizia la festa, con Nicke, Dregen e compagni manifestatamente appagati e gioiosi di tanta partecipazione. Il pubblico risponde con entusiasmo, grida e qualche livido-ricordo guadagnato nella ressa delle prime file. E idealmente li incorona al seguente “Earn the crown”, mentre in un’orgia di rock’n’roll e birra inglese i nostri snocciolano pressoche’ tutte le perle che li hanno portati fin qui. E invece di commentare, sai che faccio? Ve le snocciolo anch’io, una per una e vi lascio sognare… Una dopo l’altra si rincorrono “Payback”, “Heaven”, “Powderhead”, “A song for the outcast”, “The Clash”, “My Demonic Side”, “One Sound”, “Say when”, “U.F.O. Romeo”, “Year by year”, “Highlights”, “Star war”, “Minus Celsius”, “Brand New Hate”… E se ne vanno… No, scherzavano! C’e’ ancora “Everybody ready?!?” intrisa di energia e copioso sudore, “Made me Madman” e “Bombed” che chiude in bellezza un’esibizione semplicemente unica. Ora contate. Quanti concerti potete dire di aver visto con nientemeno che 19 pezzi?? Piu’ che un gig un regalo di Natale, piu’ che un regalo di Natale un “grazie” con tutto il cuore e l’anima, che guadagna ai Backyard Babies il mio massimo rispetto.

Seppure direi tutti i presenti potrebbero ben essere contenti cosi, la band non si risparmia foto, autografi e bagni di pubblico nel dopo concerto. E rimessi insieme i pezzi la festa prosegue al Borderline, dove un disponibilissimo Nicke cammina verso di noi e viene ad assicurarsi che lo show ci sia piaciuto! Nicke, dobbiamo davvero rispondere? Musicalmente e umanamente, ci sono alcune serate speciali che per me ridanno un senso al rock’n’roll… Serate come questa all’100 Club. Grazie ragazzi!
Cristina Massei

 



Photo by Barbara Caserta

 

THE LAST BANDIT
Indian’s Saloon – Bresso (Mi) 24-01-2004

One Night Only… così recitava il volantino di presentazione di questo show, attesissimo dal sottoscritto (ma non solo…) da quando avevo avuto sentore che prima o poi i banditi sarebbero tornati sul palco per uno show d’addio al proprio pubblico.
Brevemente ricordo che la band è da considerarsi in assoluto una delle migliori che la nostra scena abbia mai avuto, dando vita ad un bellissimo demo (“Vicious”) ed a una serie di infuocati live – shows in tutto il centro - nord culminati con il supporto fatto ai Dogs d’Amour nella leggendaria data del 7 dicembre 1990, show in cui molti si ricorderanno di 45 minuti alla grande del quartetto milanese.
La band si sciolse definitivamente, dopo un paio di cambi di nome, più o meno alla metà degli anni ’90, lasciando un grande rammarico per quello che avrebbe potuto essere la loro carriera se solo non si fossero trovati in un paese privo di tradizioni musicali degne di tale nome.

L’occasione per questa reunion era data dal rientro in Italia per qualche tempo del batterista Luca Del Giacco, ormai definitivamente trasferitosi per motivi di lavoro negli States, e mi piace pensare che un altro motivo possa essere stata l’insistenza di chi, come il sottoscritto, non ha mai smesso di sperare in una serata come questa.
Non preoccupatevi… non prendo bustarelle per scrivere queste cose… il mio amore sviscerato per la band nasce dal fatto che nessuno come loro aveva canzoni che avrebbero potuto benissimo competere con qualsiasi prodotto proveniente in quegli anni da fuori, e se pensate che stiamo parlando di fine anni ’80 – primi ’90 potrete capire a che livello si attestavano i quattro rockers meneghini.
Comunque… il grande momento di rivedere i ragazzi (…) on stage è arrivato e la location dell’Indian’s Saloon è ottimale per godersi una grande serata di rock’n’roll, ed in effetti la molta gente accorsa per la serata non andrà via delusa.

Pochi minuti prima di salire sul palco è tangibile il nervosismo dei quattro che d’altronde non si ritrovano sullo stesso palco da parecchio e probabilmente temono un po’ di ruggine.
Bastano invece pochi minuti per rendersi conto che nulla è cambiato, la magia è la stessa di una volta e i primi due pezzi, “House Of Susy B” e “Don’t Change My Blues”, entrambi estratti dal demo sopra citato, ci consegnano una band vitale come non mai e pienamente a proprio agio sullo stage. L’accoglienza del pubblico (ormai l’Indians è bello pieno) è calorosa, ad un certo punto mi sembra di essere tornato indietro di 10 anni… riconosco alcune facce che anni addietro popolavano la scena e che per un motivo o per l’altro non avevo più rivisto.
“ il prossimo pezzo è abbastanza anacronistico…”, così Rudy introduce “Young Rebels”, in assoluto uno dei miei pezzi preferiti, e a seguire arriva “Down”, uno dei pezzi rimasti nel cassetto e soltanto da poco raccolti in un demo dal titolo “Dreams Come Tru”e, peraltro recensito da Moreno proprio su questo portale. Un grande lavoro di Sergio alla chitarra, unico dei 4 ad essere rimasto nel giro con bands come Kissexy, Badlands e Rattles, introduce “Ratte My Snake”, brano che i nostri non eseguivano da tempo immemore e che sarà uno dei più apprezzati della serata.

Altro punto altissimo dello show l’esecuzione di “Down to My Home”, splendida ballad con la partecipazione di Silvia alla voce… e francamente non mi sembra di essere stato l’unico ad avere un groppo in gola durante questo pezzo..
Ma siccome lo show è principalmente una festa allora via con qualche cover di quelle giuste, “Taxi Driver”, “Drunk Like Me”, “Battleship Chains” (con special guest Lelo dei MISS alla chitarra ) e “Jumpin’ Jack Flash”.
Ci avviamo verso la fine dello show, ma a tenere banco sono ancora altri pezzi targati Last Bandit , come “Smalltown”, “Jesus Love the Bandit” e l’incendiaria “Love”, con un Rena (basso) davvero scatenato..
“Travellin’ Band” chiude lo show, ma la gente vuole ancora r’n’r e per cui il finale è affidato a due cover da sempre presenti nei loro show, “Sweet Home Alabama” (grazie ragazzi..!) e “Great Balls of Fire” che chiude davvero alla grande una serata da ricordare.
Che dire… i sentimenti alla fine di questo show sono contrastanti… da una parte la gioia di avere potuto ancora una volta godere della musica dei banditi… dall’altra il solito rammarico per quello che avrebbe potuto essere e invece…

Grazie di cuore comunque a Rudy (la più bella voce che io abbia mai sentito in Italia), Sergio, Rena e Luca (il batterista più r’n’r che io conosca…) per averci regalato una serata come questa… un vero peccato che quasi tutti i componenti della cosiddetta “scena” italiana se la siano persa… io dico che c’è sempre qualcosa da imparare… e stasera avrebbero imparato molto… anyway…
“Jesus Love the Bandits”... e non solo lui....
Federico Martinelli


 

RASMUS
31 Gennaio - GUALTIERI (RE) TEMPO ROCK

Sono le 17.40 e sono già arrivata al Tempo. Il locale mi sembra minuscolo per un concerto simile!
Comunque, incontro subito il direttore artistico che mi da le direttive su dove posizionarmi durante lo show e già noto la disorganizzazione totale... (ormai c'ho fatto l'abitudine.. LOL)
Dopo pochi minuti la band inizia il soundcheck e devo dire che rimango piacevolmente sorpresa dal suono, è ottimo, malgrado mi avessero parlato non proprio divinamente di questi ragazzi, in ambito live.
Un'altra sorpresa è scoprire che Lauri, il cantante, è una specie di puffo! E' già addobbato con il suo trucco e le sue piume in testa e inizia a canticchiare con una voce che mi da quasi un senso di tenerezza... Premetto che ho una passione per le voci "infantili" e il nostro piccolo finlandese colpisce proprio nel segno.
Resto ad aspettare fino alle 21 in un angolino, terrorizzata dalle ragazzine urlanti (ad un concerto death metal ho meno paura) ed ecco che salgono sul palco i Negramaro, devo essere sincera ma non li conoscevo, non apprezzando moltissimo il genere che definisco "musica italiana per depressi", comunque buona esibizione a parte la voce lagnosa del cantante.

40 minuti dopo si spengono le luci, parte l'intro di "funeral song" e seguiti da un boato allucinante arrivano i The Rasmus. Partono con "First day of my life", prima track dell'ultimo album e il pubblico è davvero in delirio, bandiere della Finlandia innalzate e cartelloni con frasi d'amore in suomi che fanno sorridere il corvetto Lauri.
La band è al massimo, Lauri è in grandissima forma e anche a livello coreografico riesce a caricare ancora di più il pubblico.
Segue "Guilty" e da lì iniziano le mie liti con la sicurezza perchè obbligava i fotografi a stare seduti per terra (ma dove si è mai visto!?)
Le canzoni dei primi album "Peep" e "Playbos" riscuotono successo alla pari di quelle di "Dead letters" e su "Not like the other girls" devo ammettere che ho trattenuto la lacrimuccia.
Ed ecco arrivare "In the shadows", guardo verso la pista e penso a quanto sono fortunata a non essere in mezzo a quel macello! Centinaia, forse migliaia (non sono riuscita a sapere con precisione quanti erano) di ragazzi con le mani alzate a saltare ed urlare il ritornello "Ohohohoh".
La band ringrazia, si inchina, e scappa nel backstage a riposarsi per un minuto.

Tornano sul palco ed è il momento della bella "funeral song". Esecuzione che non ho apprezzato particolarmente, forse per le rullate stile canzone popolare. Anche qui Lauri ha dimostrato di essere migliorato parecchio e, a parte qualche piccolissima stecchetta, ci ha regalato un'ottima performance.
Chiudono con "In my life" e, forse volendo emulare il loro conterranei Him, fuggono via in un battibaleno.
Che dire di più, ero partita convinta di sorbirmi un concerto flop, ed invece mi hanno sorpresa davvero, e bravi i nostri Smurfy! (traduzione in finlandese di Puffi)
Ma non è finita, la festa continua al Transilvania Live di Reggio Emilia, dove Lauri ci ha deliziati con un dj set insieme all'inossidabile Ice Ferri.

Unica pecca terribile della serata... la batteria della mia macchina fotografica si scarica proprio nel momento in cui dovevo fare la foto con la band... Sarà per la prossima!
Patrizia Cogliati

Ville ValoSpettatori speciali: Brent Muscat e Keri Kelli insieme alla nostra Patrizia

Photo by Patrizia Cogliati

 

HIM
19 Gennaio - Transilvania Live - Milano

Finalmente assisto ad un concerto degli HIM, cosa che per peripezie varie non ero mai riuscita a fare. Arrivo all’Alcatraz al pelo per l’inizio del concerto (grazie al traffico inverecondo del post-lavoro), e trovo ad accogliermi al centro del locale un simpatico ricordo di qualche losco figuro che, probabilmente, ha voluto lasciare memoria dei suoi bagordi pre-serata. Beh…se il buongiorno si vede dl mattino… Comunque, cerco di farmi largo tra la folla inneggiante, impresa che si rivela ben presto troppo ardua.
Apre un quartetto che scopro essere italiano (a quanto pare nessuno si è preoccupato di far sapere il nome del suddetto, perciò devo a malincuore recitare un mea culpa per non essere in grado di fornire informazioni dettagliate in merito), che propone un rock-pop non eccezionale ma godibile. I loro brani mi ricordano un pò la musica dei Radiohead, senza l’originalità dei loro primi lavori, ma (per fortuna) senza nemmeno lo strascicamento ammorbante da cui sembrano essere stati posseduti ultimamente. Che dire, niente di svenevole, ma almeno sono ascoltabili. Sarà che suonano una mezz’ora scarsa e non ho il tempo di rompermi troppo, ma alla fine direi che non è un supporto malvagio. Sicuramente meglio di tante altre bands sconosciute che tocca di solito sorbolarsi.

Ok, ora la folla straripante si prepara all’esibizione del quintetto nordico che si fa attendere per un buon 40 minuti. Mi sfrecciano davanti due ragazzini con le magliette dei Nirvana e io mi chiedo dove cacchio sono finita.
Finalmente appaiono Burton, Gas, Mige, Linde e Ville in ultimo, questa volta senza il cappello calato sugli occhi, ma con la chioma fluente al vento, per la gioia della sottoscritta (permettetemi di dirlo) e dei miliardi di ragazzine presenti. Aprono con "Soul On Fire" e Ville lancia un urlaccio che mi fa seriamente riflettere sul fatto di scappare via a gambe levate. Poi una doppietta "Your Sweet 666" e "Join Me In Death" così tanto per gradire, che manda il pubblico in visibilio. Il gruppo pesca i brani dai vari album con una certa predilezione per l’ultimo "Love Metal" e "Razorblade Romance". La platea partecipa con gran fervore e canta a squarciagola i brani proposti. Particolarmente intensa l’esecuzione di "Heartache Every Moment" anche per l’effetto rievocativo che ha prodotto su di me, fantastica.

Il buon Ville, sempre discretamente impalato, continua ad offrire una performance canora notevole, che lo redime al 100% dallo scivolone iniziale. Con l’onnipresente sigaretta tra le dita prosegue con "In Joy And Sorrow", la sorpresa di "It’s All Tears (Drown In This Love)", "The Sacrament", "Poison Girl", "Lose You Tonight". La versione di "The Funeral Of Hearts" viene salutata da un boato e all’unisono il pubblico accompagna l’esecuzione di Ville, che si concede qualche virtuosismo vocale che non si può apprezzare su disco. La voce è ben supportata dalla chitarra di Linde. Accompagnamento di sole tastiere (a dire il vero non perfette nel suono) e basso per l’inizio di Pretending rendono la versione estremamente affascinante. Poi si prosegue ancora con "Wicked Game", "Right Here in My Arms", "Buried Alive By Love", che scatena l’energia di chi continua a sgomitare per cercare di farsi largo nella bolgia in cui si è trasformato il locale, Sweet Pandemonium, pezzo di grande atmosfera che spezza il ritmo e concede un attimo di pausa. Un Valo particolarmente chiacchierone introduce il nuovo singolo di prossima uscita "Solitary Man", prima dell’ultima tranche di canzoni. Purtroppo manca all’appello la mia preferita "Resurrection", aspetto più di un’ora e mezza e 76 sigarette di Valo, ma niente di fatto. Pazienza, si chiude con la splendida "Gone With The Sin". Nel complesso una buona prova. Certo, non passeranno alla storia per essere una band coreografica, ma testi e musica riescono a creare un’atmosfera romantica e oscura. Peccato che Ville se la tiri un pò troppo, il che, alla lunga, risulta fastidioso.
Si accendono le luci del locale che illuminano il pentacolo cuoricioso sullo sfondo del palco. Mi avvio verso l’uscita dove scorgo il mio vero idolo della serata: un signore sulla cinquantina che ha accompagnato al concerto le figlie, cuore di papà!
Claudia Schiavone

 

GOOD CHARLOTTE + Sugarcult+Mest
Brixton Academy, London – 17 Dicembre 2003

Davvero tutti odiano i Good Charlotte? Dunque, questo sold out a Brixton… Un linciaggio organizzato? Temendo per l’incolumita’ dei quattro californiani, eccomi apparire sul luogo del presunto imminente delitto.
Aprono i
Mest, nota band di amici degli headliners, che in verita’ a parte quello difficilmente potrebbero permettersi una scenografia tanto sontuosa. La guest appearance di Benji e’ probabilmente l’highlight dell’esibizione.
Secondo opening act, stavolta di lusso, gli
Sugarcult, che mandano gia’ in visibilio le ragazzine presenti. E quando dico ragazzine intendo ragazzine… Cerco di avvicinare il palco per qualche foto, ma proprio non reggo: queste poppunkettare in miniatura hanno un’eta’ media di 11 anni e sfondano i timpani, in preda probabilmente a quello che di piu’ vicino a un orgasmo hanno provato in vita loro.
La band non e’ niente male per il suo genere, un solare e spensierato poppunk da classifica, senza troppe pretese ma interpretato con una professionalita’ degna della cornice maestosa del Brixton Academy. Pezzi come “You’re the one” e “Pretty girl” rimangono facilmente incastrati tra le orecchie e il cervello, dove continureranno a risuonare finche’ qualcosa di piu’ incisivo le sbattera’ fuori, compito decisamente alla portata dei protagonisti di questa sera.

Finiti gli Sugarcult la situazione non migliora per i miei timpani, gridolini acuti e stridenti salutano il telo dei Good Charlotte che scende a coprire il palco, ogni movimento dei roadies, ogni prova strumenti. E finalmente arrivano le 21.30, tutto e’ pronto, il quartetto californiano entra in scena accompagnato dalle note di “A New Beginning” che apre il loro piu’ recente lavoro. E’ delirio.
Fare foto e’ un’utopia, tutte le mani sono protese verso i quattro, cerco di arrangiarmi come posso e poi arretro in preda a crisi isteriche e finalmente inizio a godermi lo spettacolo. Devo ammetterlo, sono qui un po’ per curiosita’, un po’ per esplorare nuovi mondi, un po’ perche’ “The Young and the Hopeless” e’ uno dei miei album preferiti dell’anno, ma non mi aspetto troppo. I GC appaiono un po’ come la tipica band da MTV, costruita, bei video, ma in genere e’ dal vivo che artisti come questi crollano inesorabilmente. Invece attenzione, mai giudicare dalle apparenze! Questo e’ stato di sicuro il concerto piu’ sorprendente del 2003 per me, oltre ad entrare di diritto nella mia top 5 live.

I pezzi vecchi e nuovi sono tutti estremamente godibili, i suoni non hanno nulla da invidiare a quelli di un album prodotto ad arte, anzi pompano le note con overdosi di energia e voglia di divertirsi. I quattro saltano mai paghi, il pubblico con loro, e la prima ora passa come fossero 10 minuti. Tra le perle a inizio serata una delle mie preferite, “Riot Girl”, con citazione per i Social Distortion e sberleffo a Britney e Christina, ma davvero volendo trovare delle highlights c’e’ l’imbarazzo della scelta. Un party senza tregua, tra “The Anthem”, “Wandering” e pezzi piu’ vecchi, come una “powerpoppunkballad” spensierata, a cui segue “My bloody Valentine”. In questo momento “tenero con verve”, il fastidio per le urla da asilo d’infanzia svanisce di fronte ad un bacio tra tredicenni con l’acne e gli occhi sognanti; tra le scarpe da ginnastica e jeans oversize calati su fianchi inesistenti, le t-shirt rosa confetto dei GC battono i vari Limp Bizkit, e uniti per un futuro migliore tutti insieme cantiamo “Girls & Boys”. Una dedica a Londra, il posto dove un giorno vorrebbe morire, dice Joel, proponendo a tutti di ritrovarsi esattamente qui tra 70 anni e farlo insieme. Saro’ ultracentenaria, affare fatto. “The day that I die”, “The young & the hopeless”, non senza un ringraziamento a quel pubblico senza il quale, stavolta parla Benji, nessuna radio, tv o giornale si sarebbe mai occupato di loro.

E attenzione, anche gli speech sono ritmati dalla chitarra di Paul. A parte la vera ballad della serata, “Emotionless”, con i tre in schieramento sgabello e chitarra, questo show non perde il ritmo per un solo minuto. Pompa ininterrottamente, non da’ fiato, noia, tempo per un drink, non c’e’ “skip” da premere. E’ come correre i cento metri. So gia’ da meta’ show che non ci sara’ un break con bis a seguire, e’ inspiegabile ma sai che il ciclone Good Charlotte non puo’ fermarsi al semaforo. E infatti, quando e’ passata un’ora e mezza e lo show e’ vivo esattamente come un’ora fa, Joel comunica che devono abbandonare il palco. E’ cosi che va, noi ora dovremmo sparire e voi dovreste gridare “One more song, one more song”… Il pubblico grida gia’, perche’ scendere, perche’ spezzare l’alta tensione che percorre la sala? “Lifestyle of the rich & the famous”, singolo dell’anno, da’ l’ultima sferzata di adrenalina. Saltiamo tutti, anch’io che per l’occasione sfoggio, ehm, Nike e pantaloni larghi ovviamente calati.

Lascio la sala, non prima che l’ultima nota si sia spenta e ogni strumento sia stato lanciato. Davanti a me, un papa’ punk in pelle e megacresta fucsia, tiene per mano un bambino rasato a quadretti arancioni e una bambina con bandana a teschi rosa.
Cristina Massei

 

THE DARKNESS + Ted Benson & Young Heart Attack
Brixton Academy, London - 5/6 Dicembre 2003

Doppio sold out in un venue a capacita' 4.700, questo malgrado un'estate di Festivals e 4 concerti da headliners in 3 mesi: i londinesi sembrano non essere mai sazi dei Darkness, new sensation britannica che si e' gia' aggiudicata un doppio platino e svariati awards con il debutto "Permission to Land", uscito lo scorso Luglio.
L'attesa dell'evento e' dominata dall'interrogativo riservato immancabilmente a ogni new sensation: fu vera gloria? Al palco l'ardua sentenza... Si tratta dunque dell'ennesimo prodotto "usa e getta" o dell’icona rock dei prossimi anni? Stasera gli esaminati nell’Aula di Brixton sono Justin e Dan Hawkins, Frank Poullain e Ed Graham. E noi siamo pronti, paletta in mano, a metterli ai voti senza pieta’.
In fila fuori c'e' una delle folle piu' varie che mi sia mai capitato di vedere: da ragazzini dodicenni a coppie sulla cinquantina, da poppettari a metallari e gotici, stivaloni a zeppa si mischiano a scarpe da ginnastica, felpe a pvc, mentre i fans "illustri" vanno dal colosso Brian May all'ex Take That Mark Owen. Di tutto e di piu', come lo spettacolo a cui ci accingiamo ad assistere.

La prima support band di questa sera viene da Austin, Texas, si chiama Young Heart Attack, e propone una formazione abbastanza anomala: due lead singers, un uomo e una donna con due timbri vocali estremamente differenti, ma che si intrecciano in maniera straordinariamente gradevole. I YHA si presentano al pubblico londinese con un pezzo di puro e grezzo rock'n'roll, un sound che potremmo essere tentati di definire retro' 80 ma che in realta' potrebbe (proprio come i Darkness) collocarsi in qualsiasi epoca musicale.
I brani che seguono confermano nel songwriting e nell'esecuzione il talento di questi giovani artisti, e i gustosi assaggi "Tommy Shots", "Over and Over" e il singolo uscito in questi giorni "Misty Rowe" mi mettono l'acquolina in bocca. Pertanto, segno sulla mia agenda e vi consiglio l'album di debutto dei Young Heart Attack "Mouthful of Love" in uscita a Marzo, e passo ai prossimi in scaletta, tali Ted Benson.

Personalmente li trovo fastidiosi alla vista e all'ascolto, ma si sa, "de gustibus". Look: camionisti vestiti per la partita di baseball della domenica; tutti con gli stessi jeans, cappellino e magliettina traforata, cantante capellone anoressico. Voce: brutta e atrocemente fastidiosa. Musica: prendete i 10 secondi piu' violenti dei Rage Against The Machine e ripetete, ripetete, ripetete. A parte un paio di pezzi, di cui uno totalmente dissonante col resto e incentrato sulla solita tastiera ottantiana tornata fashionable di recente, melodia e chiave maggiore sembrano latitare. Finali che vanno avanti all'infinito ripetendo lo stesso motivo, fosse almeno orecchiabile.
Nota di colore: le signorine ponpon dei TB, dal fisico non proprio invidiabile... Veder agitare con tale disinvoltura un beer belly e un sedere simile sul palco del Brixton Academy avra' avuto senz'altro degli effetti notevoli sul morale delle femmine presenti e sulle vendite dei bar interni. Le avra' imposte la Carling?
E finalmente fu il silenzio… Un telo nero cala davanti al palco per la preparazione delle scenografie di questo pluridecorato main act; il pubblico sbircia, rumoreggia, e quando si spengono le luci in platea 4700 voci si alzano in un grido unico: signori, bambini, curiosi… ecco a voi i Darkness. Ed e’ gia’ chiaro dall’ingresso sicuro di Justin, dalle prime note del B-side “Bareback”, dalla reazione uniforme della folla che l’attesa e’ finita. Stavolta non e’ il solito falso allarme: l’Inghilterra, all’eterna errante ricerca della “next big thing”, ha finalmente qualcuno da coronare, e per gli stranieri scettici dopo tanti “al lupo al lupo” non rimane che prenotare i biglietti. Lo show abbia inizio, e’ “Black Shuck”, rockeggiante apertura da stadio, seguita dal singolo che ha per la prima volta conquistato la massa, “Growing on me”.

E soffermiamoci subito su quello che ormai e’ un classico, perche’ “Growing on me” racchiude tutti gli elementi dell’inimitabile formula Darkness: c’e’ un pezzo cosi perfettamente catchy da farti chiedere dove lo hai gia’ sentito e rendersi inconfondibile allo stesso tempo; c’e’ l’espressione di un’innegabile talento artistico da parte di ogni singolo componente della band; c’e’ l’ironia trademark delle lyrics, che sotto le mentite spoglie di una canzone d’amore raccontano apparentemente di un fungo ai genitali.
Ad un pezzo tanto geniale fanno da cornice la teatralita’ del leader Justin Hawkins e delle sue ormai famose catsuits custom made. Non che Justin sia solo questo, e non che la sua voce sia solo il falsetto di cui tanto si parla: va su su su, giu, giu e su ancora, senza difficolta’ o sbavature, privilegi di quegli eletti che hanno un vero e proprio strumento anziche’ comuni corde vocali. E gli altri musicisti non sono da meno, grazie anche a oltre tre anni di intensa esperienza, passione e perseveranza.
A ulteriore dimostrazione che dietro a tanto fumo c’e’ dell’arrosto, la scaletta di stasera non si limita a proporci pezzi dal pluridecorato “Permission to Land”, ma sfodera diversi b-side che poco o niente hanno da invidiare ai piu’ noti numeri uno. “The best of me” (apparso sull’ormai introvabile singolo “Get your hands off my woman”) e’ un potenziale pezzo d’alta classifica che mi ritrovo a canticchiare dopo un solo ascolto, seguita da “Makin’out” (da “I believe in a thing called love”).

“Volete una power ballad?”, chiede Justin, introducendo “Love is only a feeling”. Segue “Physical Sex” (altro b-side da “I believe…”), poi il frontman si rivolge di nuovo al pubblico, invitato a scegliere tra la versione originale e quella censurata di “Get your hands off my woman”, l’unico brano contenente le parole “muthafucker” e “cunt” mai entrato in classifica. “Dirty”, decreta la folla senza dubbi. 4700 persone fanno del loro meglio per accompagnare il celebre falsetto justiniano in quello che probabilmente e’ il picco di questa perfetta serata.
“Stuck in a rut”, la nostalgica “Friday night” e la hit “I believe in a thing called love” ci accompagnano cantando verso la fine. Ovviamente Justin torna con gli stessi compagni e una catsuit differente, proponendoci per il bis “Givin’Up” e “Love on the Rocks with No Ice”, mai pubblicato come singolo ma uno dei preferiti dai fans della band. Ed e’ in omaggio ai suoi fans che il cantante si fa sollevare da un omone per continuare l’assolo di chitarra sfilando tra il pubblico; e in omaggio a un fan speciale, Brian May, che li segue a ogni concerto londinese, il motivo di “Love on the Rocks” si trasforma in quello di “We will rock you”, con l’intera Academy che canta e batte le mani insieme a Hawkins in omaggio al suo dichiarato idolo Freddy Mercury.

Non e’ finita, stavolta il nostro esce e rientra vestito da Santa Claus con un coro di bambini di tutte le razze, e’ ora di “Christmas Time (don’t let the bells end)”, IL singolo natalizio cosi come deve essere. Finisce tra pyros, neve e coriandoli d’argento la festa per il ritorno del rock, di cui Justin e Dan Hawkins, Frank Poullain e Ed Graham si laureano prossime icone a pieni voti.
Che dire ancora? Caro Babbo Natale… Give me a D! Give me an ARKNESS! Give me the DARKNESS e 1000 serate come questa nel prossimo decennio! God Bless Rock’n’Roll…
Cristina Massei

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