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The Temperance Movement “White Bear”

The Temperance Movement "White Bear"

Amanti del retro rock seventees fatto in modo entusiasticamente inappuntabile fatevi avanti! Gli scozzesi The Temperance Movement sono qua per prendervi a spallate e per farsi posto nei vostri cuori tra Rival Sons e compagni… questo lo scrivevo solo un paio d’anni fa come apertura della recensione del loro primo magnifico album.

Messisi in luce nel 2013 con l’album omonimo di debutto i cinque glaswegians in realtà non erano imberbi ventenni alle prime armi bensì cinque musicisti già con svariate esperienze alle spalle che avevano deciso di puntare l’intera somma sul tavolo verde e sbancare le charts (anche se ai giorni nostri ormai dire cosi risulta purtroppo obsoleto). Fatto sta che, con l’uscita del loro omonimo esordio, sono piombati al 12°posto in Inghilterra, facendo capolino per le radio di mezzo mondo (compresa la nostra Virgin Radio) con l’accattivante “Take it back” e venendo invitati dagli Stones ad aprire il concerto di Berlino di due anni fa. Il mix tutto inglese era di quelli sapientemente creati ma che non puzzava nè di artefatto né di paraculo… risultato: recensioni entusiaste in mezzo mondo, tour prestigiosi e la consapevolezza di essere ormai sulla bocca di tutti gli appassionati di rock. Ora arriva la prova del nove con il secondo album “White Bear” dove la band deve effettivamente dimostrare che il successo ottenuto non è stato un fuoco di paglia.

Che dire? Ci sono riusciti? …solo in parte…la freschezza, le canzoni e la fluidità del debut erano altra cosa. I Temperance Movement ci hanno dato giù in studio ma hanno perso quel candore delle opere prime, velato dalla consapevolezza che in molti li aspettavano al varco senza più l’effetto sorpresa. “White Bear” è costruito in studio senza quella frustata sudata nelle canzoni dovute ad ore ed ore in sala prove… ha maggior sicurezza che sfocia però qua e là nel puro mestiere, in odore di deja vù e di autocitazionismo spicciolo (…che per una band già di per sé nata citando altri non è il massimo!). Tutto questo discorso iniziale non sta a significare però che quest’album non sia comunque un buon lavoro con alcuni brani veramente convincenti… “Three Bulleits” ad esempio è un rock bello tosto tutto coretti molto catchy. Se il disco omonimo abbondava di ballad e chiaroscuri tenui, color pastello e molto bluesy, qua la pacca viene fuori subito a polmoni pieni rimanendo predominante lungo tutto il disco.
Il sound tipicamente Black Crowes fa capolino con “Get Yourself Free” dove la voce di Phil Campbell ruggisce atmosfere sudiste. Le chitarre di Paul Sayer e Luke Postashnick fanno un lavoro eccellente soprattutto nel dar corpo alle ritmiche dei brani.
A Pleasant Peace I Feel” è una ballad dalla ritmica sbilenca che esplode nel chorus ma lascia la netta sensazione di qualcosa di mancato. “Modern Massacre” è un rock’n roll “caciarone” che non aggiunge nulla – energia a parte – al “quid” dell’album. Molto meglio “Battle Lines” ed il suo fine lavoro ritmico con un bel ritornello avvincente anche se non originale. Uno dei picchi dell’album è sicuramente la title track dove esce tutto il mood dolce amaro della band scozzese… lo stesso che ci aveva fatto venire i brividi in “Chinese Lantern” nell’album precedente. Phil Campbell è la quintessenza del singer rock, con le corde vocali blues che puzzano di Paul Rodgers e Steve Marriott.
Altro succoso brano è “Oh Lorraine” che riporta a certe atmosfere indie care ai Kings of Leon.
Il Movimento della Temperanza (per i più curiosi, esistito veramente in America nel corso dell’ottocento, con l’obiettivo di ottenere la proibizione delle bevande alcoliche) è tornato insomma con un buon comeback contenente alcuni brani veramente intriganti… chi si aspettava invece un altro capolavoro dal gruppo di Glasgow rimarrà probabilmente deluso dalla ripetitività che si rincorre lungo tutto questo “White Bear“: ora scusatemi ma torno ad ascoltare “Midnight Black“…

Earache Records 2016
MATTEO TREVISINI

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